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Covid-19: ecco perché l’infezione non è uguale per tutti

di Lorenzo Scorsoni

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Anche se siamo entrati nel terzo anno di pandemia, gli studi di scienziati ed esperti non riescono ancora a fornire le risposte a tutte le domande. Una delle più frequenti, che sicuramente ci saremo posti tutti, riguarda il perché il Covid-19 attacchi in maniera così diversa. Ecco alcuni dei possibili motivi.

Covid-19, i dubbi maggiori

Sarà capitato a molti di aver avuto contatti con dei positivi, ma aver ottenuto sempre e solo avuto tamponi negativi. Ciò non vale per tutti, ovviamente. Non è raro sentire casi di persone che avevano già contratto il virus e che, al cambiare di variante, lo hanno ripreso. Cosa c’è alla base del comportamento del Sars-Cov-2? Perché alcuni individui sembrano esserne addirittura immuni? Cosa rende organismi potenzialmente simili più o meno fragili all’infezione?

A queste domande prova a fornire una risposta la dottoressa Zania Stamataki, ricercatrice di immunologia virale presso l’università di Birmingham. Anche lei, racconta al Guardian, non è mai risultata positiva pur lavorando a stretto contatto con il virus vivo e in grado di riprodursi.

La possibilità che vi siano persone che non siano realmente mai entrate a contatto con almeno una delle varianti è estremamente bassa. Questo apre la porta a diversi possibili scenari: alcuni organismi potrebbero essere in grado di eliminare il virus prima che sviluppi la malattia (infezione abortiva). Altri, pur avendo sviluppato l’attività virale, non hanno sintomatologia alcuna, dunque non effettuano i test.

Le Cellule T

La rapida eliminazione del virus è dovuta alla preesistenza, in alcune persone, di anticorpi e cellule a memoria immunitaria. Queste ultime, le Cellule T a reattività incrociata, sono generate partendo da coronavirus più innocui e responsabili di raffreddori comuni. Essendo precedenti al Covid-19, la loro memoria immunitaria è dunque in grado di riconoscere ed attaccare le parti sensibili del virus attuale. La presenza di queste cellule è molto più diffusa nei giovani e quasi assente nella popolazione più anziana.

Qual è il ruolo dei vaccini in questa situazione? Alcuni vaccini (Pfizer e Moderna) inseriscono parte di queste cellule nell’organismo, ma queste sono specializzate nel riconoscere una sola proteina del virus, denominata Spike. Il problema è che le varianti oggi presenti del Covid-19, pur mantenendo questa proteina, presentano strutture molto diverse rispetto le prime. Questo è uno dei motivi dietro le numerose dosi, che devono essere potenziate per combattere le modifiche naturali del virus. Ciò serve anche a spiegare perché chi è già risultato positivo può prendere un’altra variante mostrando sintomi ancora diversi.

Covid

Covid (@Shutterstock)

Covid-19, la proteina Spike

Detto tutto ciò, è ancora in dubbio perché alcune persone sembrino immuni. La proteina Spike, spiega la Stamataki, si attacca alle proteine ACE2 umane. Questa proteina non è, però, presente in egual misura in tutti gli individui e ciò può fornire una spiegazione. I bambini presentano poche proteine ACE2 nei polmoni e la loro infezione risulta di fatto più lieve.

Un altro motivo sono le possibili varianti di questa proteina umana, che potrebbero non consentire un attacco da parte delle Spike. Del resto, com’è noto, vi sono individui che per particolari modificazioni della proteina CCR5 sono immuni all’HIV. Lo sviluppo del Covid potrebbe dunque agire in maniera simile, visto questo precedente.

La proteina Spike è una delle più variabili nella struttura virale. La moltiplicazione virale è un processo soggetto a errori e le mutazioni che ne scaturiscono possono modificare anche la proteina Spike. Il problema dei vaccini odierni, secondo gli studiosi, sarebbe proprio questo: basano l’efficacia proprio sulla componente più variabile della malattia. Questo comporta, come prima conseguenza, l’inefficacia dei vaccini sulle nuove varianti e, come seconda, una modifica necessaria degli stessi vaccini e nuove dosi per fronteggiare le modifiche del Sars-Cov-2. Andare a colpire quelle parti meno variabili della malattia potrebbe essere una soluzione per un vaccino più forte. Gli studi tuttavia non sono risultati ancora sufficienti, e l’alta variabilità del virus non è sicuramente d’aiuto.

Vedremo nei prossimi mesi in che modo sarà possibile monitorare e tenere sotto controllo la situazione.

Di Scorsoni Lorenzo

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