di Gianmichele Trotta
Accade a Modena l’ennesimo episodio che vede al centro della disputa un ideale, collegato inesorabilmente alla paura del vaccino. Questa volta, però, a pagarne le conseguenze è un bambino di soli 3 anni, gravemente malato. Al piccolo serve una trasfusione di sangue, ma i genitori rifiutano perché non è “sangue no-vax“; i medici hanno chiesto il supporto del tribunale dei minori.
L’appello dei medici
Stando a quanto riporta l’ANSA, il piccolo di 3 anni deve essere sottoposto a un delicato intervento chirurgico al cuore. I tempi stringono, e per portare a termine l’intervento i medici hanno bisogno di effettuare una trasfusione di sangue. I genitori, però, considerano “inquinato” dal vaccino il sangue proposto dall’ospedale. Per questo motivo si occupano privatamente della ricerca, rivolgendosi ancora una volta alle famigerate chat di Telegram, dove ormai sembra si possa trovare di tutto.
I medici, però, fanno pressione. Il bimbo ha bisogno di essere operato d’urgenza, e questi “capricci” non fanno che far sprecare tempo prezioso per salvargli la vita. Così, i medici dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, fanno appello alla Procura dei minori di Bologna. Quello che chiedono i medici dell’ospedale è di limitare la responsabilità genitoriale e operare comunque il bambino.
L’infondatezza del “sangue no-vax”
Sulla vicenda si esprime anche Vincenzo De Angelis, direttore del Centro Nazionale Sangue. A suo parere, la richiesta dei genitori è “assurda, priva di alcun fondamento scientifico“. De Angelis continua: “La scelta del sangue è legata a precisi criteri di compatibilità e non a capricci. Usare quello di persone non vaccinate non ha alcun fondamento scientifico perché con la trasfusione non si ‘trasmette’ il vaccino“.
Inoltre, la ricerca del sangue in maniera indipendente è altamente sconsigliata dai medici. Il motivo è semplice, le trasfusioni di sangue avvengono con campioni ricercati per essere quanto più compatibili possibili con quello del paziente, in modo da non avere problemi. In più, c’è anche un motivo di giustizia sociale, poiché la donazione per amicizia o familiarità può avvenire “sotto pressione psicologica” e non volontaria, come dovrebbe essere.
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di Gianmichele Trotta
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