di Cristian Castellini
La tragedia della diga del Vajont è una delle pagine più tristi della storia recente del nostro Paese. Alle ore 22:39 del 9 ottobre 1963, precisamente 60 anni fa, la valle omonima compresa fra Veneto e Friuli Venezia-Giulia è stata il teatro di un disastro industriale destinato a cambiare per sempre la vita delle popolazioni residenti.
Per capire cosa è successo quella sera, bisogna fare un passo indietro. Correva l’anno 1959 e la valle del Vajont venne scelta per la costruzione di un’enorme diga che servisse da bacino idroelettrico. L’enorme opera ingegneristica alterò pesantemente le condizioni geologiche della zona, in particolare quelle del monte Toc, che sovrasta e sovrastava la valle.
La strage del Vajont
Nei successivi 4 anni arrivarono i primi segnali di instabilità, ma le autorità competenti si rifiutarono di indagare accuratamente sulle piccole ma costanti frane che si verificavano, nonostante gli allarmi sollevati da giornalisti ed esperti. Si arrivò così al 9 ottobre del ’63, quando dal Monte Toc si staccarono oltre 270 milioni di metri cubi di roccia, terra ed altro materiale, pronte a riversarsi nel bacino del Vajont.
In poco meno di 20 secondi, la frana precipitò in acqua e sollevò un’onda che si diramò in tre direzioni. Davanti, verso il paese di Casso, a destra verso alcune frazioni sparse, e a sinistra verso la valle del Piave, scavalcando la diga e raggiungendo il paese di Longarone.
Nel giro di qualche minuto, il nucleo urbano venne spazzato via dalla forza delle acque. I più “fortunati” vennero uccisi sul colpo dall’arrivo dell’onda d’urto visto che si trovavano all’aperto, mentre per altri la sorte è stata ancora peggiore. Le case vennero spazzate via come castelli di carte mentre l’enorme tsunami artificiale continuava la sua corsa nella valle, trascinando con sé detriti e esseri umani. La stessa sorte toccò anche ad alcune frazioni dei paesini di Erto e Casso.
I primi soccorsi partirono dalle aree circostanti ma furono costretti a ritardare gli interventi a causa dei danni causati alle infrastrutture e alle strade. Alle 5:30 del mattino riuscirono a farsi strada verso Longarone, solamente per trovarsi davanti al panorama di una valle completamente spazzata via. Quella notte persero la vita 1910 persone. Circa 400 cadaveri non furono mai ritrovati.
Cosa è rimasto 60 anni dopo
La forza della vita, si sa, resiste anche alle grandi tragedie. Longarone, Erto e Casso hanno pianto i loro morti e cominciato a ricostruire, mentre lo Stato italiano apriva inchieste per cercare dei colpevoli. Il processo, svoltosi a Roma nel 1968 si concluse con le condanne a 5 e 3 anni di reclusione per Alberico Biadene e Francesco Sensidoni, gli ingegneri responsabili della diga.
Longarone rinacque dal cemento e dall’acciaio, perdendo la sua identità fisica ma mai il senso di comunità. All’ombra della diga ancora intatta la popolazione ogni anno si stringe nel lutto, commemora i 1450 concittadini scomparsi e trasmette il ricordo anche alle nuove generazioni. Il nucleo urbano venne ricostruito in tempi relativamente brevi, a discapito ovviamente dell’estetica: la nuova Longarone è un labirinto di cemento armato che piace poco agli stessi abitanti. Sono tornate industrie, case e servizi, ma è scomparsa per sempre l’atmosfera del paesino di alta montagna.
Foto e racconti dell’epoca suonano oggi come lontani echi di un tempo troppo lontano per essere ricordato, ma guai a pensare che gli abitanti delle valli del Vajont e del Piave abbiano dimenticato ciò che è accaduto. In una frazione di Longarone poco distante dal centro sorge ancora un campanile molto antico, rimasto in piedi dopo il disastro e oggi ristrutturato. Nella piazza del paese è stato inaugurato inoltre il “Museo Longarone Vajont – attimi di Storia” (Google Maps), allo scopo di sensibilizzare i turisti sulla tremenda tragedia del 1963.
Conclusioni
La vicenda del Vajont ha messo in luce tutte le problematiche riguardanti la progettazione di dighe. L’energia idroelettrica è fondamentale per il nostro Paese, in quanto è una delle principali fonti di elettricità, la prima fra le rinnovabili. Dopo la strage del 1963 si è abbandonata quasi completamente l’idea di costruire immense dighe, a favore di impianti più piccoli. E soprattutto, nella costruzione di invasi di grosse dimensioni, si è cominciato a tener conto delle problematiche geomorfologiche del territorio. Un passo non da poco, che per essere compiuto però ha chiesto la vita di migliaia di persone. L’uomo impara dagli sbagli, ma spesso questi sarebbero ampiamente evitabili.
Fonte dell’immagine di copertina: canale Youtube Lost Structures
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