Pfizer, il vaccino anti-covid di più larga diffusione nel territorio italiano, non è più considerato dalla legge un “farmaco sperimentale”. Per questo motivo il nostro governo è autorizzato, dal massimo della liceità, a rendere obbligatoria la vaccinoterapia con tale medicinale. Nonostante ciò, per questioni che non saranno approfondite in questo articolo, la nostra amministrazione ha scelto, almeno per ora, di rendere l’inoculazione di questa sostanze “consigliata” e non “inderogabile”.
L’inesistenza di un’obbligatorietà vaccinale non rende doveroso il “risarcimento danni” reclamato a gran voce dalla categoria dei no-vax. Ciononostante la nostra direzione governativa ha scelto di stanziare 150 milioni di euro in un fondo statale per rimborsare, nel caso in cui ce ne fosse bisogno, tutte quelle persone che avessero tratto dalla somministrazione del vaccino un danno fisico permanente.
La probabilità che un effetto avverso del siero anti-covid si manifesti in una persona, è stimata in una percentuale che non supera la singola unità. In più del 99% dei casi “il cliente è soddisfatto”. Ai fruitori che fanno parte dell’esigua percentuale rimanente invece, lo stato italiano corrisponderà un indennizzo. In particolare, avranno diritto al risarcimento coloro i quali riportino “lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica“.
Diritto.it spiega la procedura da azionare nel caso in cui faceste parte della frazione degli “sfortunati”.
La persona danneggiata (o gli eredi, in caso di decesso) deve presentare la domanda alla Azienda sanitaria di residenza, allegando i documenti che attestano prima la vaccinazione e poi l’insorgere della patologia collegata; poi bisogna sottoporsi a una visita effettuata da parte della Commissione medica ospedaliera del territorio, che deve esprimere un giudizio positivo o negativo su patologia e correlazione; se è positivo si ottiene l’indennizzo, se è negativo si può presentare ricorso entro 30 giorni. In ogni caso la domanda va presentata entro tre anni dall’insorgere della patologia, non dalla somministrazione.
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