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True Detective: oltre il velo della prima stagione (PARTE 2)

di Redazione NCI

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Se all’interno del precedente articolo su True Detective sono stati trattati gli episodi d’apertura dello show, qui si farà luce sia su alcune figure emblematiche della seconda metà, che su teorie filosofiche rielaborate durante le fasi conclusive.

Un cerchio piatto 

Ci concentriamo quindi sul quinto episodio di True Detective e, di conseguenza, su uno dei pilastri fondativi della corrente di pensiero di Nietzsche (citati dal nullista alcolizzato). In aggiunta, scaveremo nelle profondità di Reginald Ledoux, soffermandoci sul rapporto che intercorre fra il suddetto e la letteratura weird.

“Qualcuno una volta mi ha detto: il tempo è un cerchio piatto. Tutto quello che abbiamo fatto o che faremo, lo faremo ancora, e ancora, e per sempre. E quel bambino e quella bambina, staranno in quella stanza. Ancora. E ancora. E ancora. Per sempre”. La riflessione del personaggio strizza l’occhio all’esposizione dell’eterno ritorno elaborata da Nietzsche. A detta del poliziotto, gli accadimenti che il futuro propone sono in realtà già insiti nel passato, tuttavia, poiché essi si ripetono in eterno, amministrano la sofferenza allo stesso modo. Gli orrori dunque perdurano, così come i drammi vissuti dall’individuo. Non vi è possibilità di rimediare al male fatto o subito; il mutamento non è che una chimerica scappatoia.

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Incubo a-temporale

“Avete mai sentito parlare della “Teoria M”, detective? […] È tipo… In questo universo noi gestiamo il tempo in maniera lineare. In avanti. Ma al di fuori del nostro spazio-tempo, da una prospettiva che sarebbe quadridimensionale, il tempo non esisterebbe. E da quella posizione, se potessimo raggiungerla, vedremmo che il nostro spazio-tempo è come appiattito. […] La nostra vita si ripropone ciclicamente, come dei kart sulla pista. Tutto quello che è al di fuori della nostra dimensione è eternità”. Il richiamo alla scienza da parte del protagonista rappresenta forse l’unica via per sfuggire all’incubo a-temporale. Egli tenta in tutti i modi di razionalizzare gli eventi, giacché l’ipotesi che alberghi un piano metafisico, concretamente raggiungibile dai killer per mezzo di pratiche occulte, lo porterebbe definitivamente alla pazzia.

I mostri: Reggie

Quel qualcuno a cui Rust accenna inizialmente è Reggie, la figura più inquietante della puntata. Il sopracitato avanza seminudo con un machete in mano, il corpo è ricoperto da numerosi tatuaggi e la maschera antigas disposta sul volto ne restituisce un’aria a dir poco minacciosa. Alcuni dei simboli sparsi sulla sua pelle meritano una menzione.

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In questo caso, la spirale ricorrente è marchiata a fuoco tra le scapole dello stupratore, in segno di appartenenza alla setta. Il nodo disegnato attorno alla gola rimanda sia al linciaggio dei neri che al rapporto che il criminale detiene coi membri del gruppo.

Notiamo poi le scritte Ab e Swp. Le prime lettere stanno per “Arian Brotherood” (fratellanza ariana), mentre le ultime  indicano l’acronimo della destra razzista: “Supreme White Power”. In sostanza, i tatuaggi a sfondo politico designano Ledoux come un chiaro esponente del cosiddetto “white trash” americano.

Ritratto 

La raffigurazione androgina sul petto del sequestratore farebbe riferimento tanto a un bambino che prega quanto al volto dell’investigatore. Il viso in questione conterrebbe due significati al suo interno: da un lato lo sfregio alla religione cristiana esplicitato dalla stilizzazione della sagoma, dall’altro una sorta di predestinazione carnale. Il malvivente avrebbe da tempo impresso sul torace l’incontro con Rust.

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Giallo

Se l’estetica dell’adulto impatta prepotentemente sull’intera serie, è ciò che afferma a scuoterne la sostanza.

“È il momento vero? Le stelle nere. Le stelle nere sorgono. So cosa accadrà ora. Ti ho visto nei miei sogni. Ora sei a Carcosa, con me. Lui ti vede. Lo farai di nuovo. Il tempo è un cerchio piatto. Il sole cala sulla sponda del lago Hali. Il gemello. Stelle nere volteggiano nel cielo”. Le esclamazioni dell’assassino sono connesse all’opera di W. Chambers: The King in Yellow. Il testo è formato da una serie di racconti che ruotano attorno alla pièce teatrale “Il re giallo”; la lettura dei medesimi porterebbe dapprima alla follia e infine alla morte in tragiche circostanze.

Sebbene la Carcosa citata da Ledoux compaia negli scritti dell’autore statunitense, fu Ambrose Bierce a introdurla per la prima volta in Un abitante di Carcosa. Egli la descrive come una città fantasma costituita da alti edifici neri, ove riecheggiano suoni misteriosi. Al di sopra sorgono due lune ed oltre le rovine si stagliano sia Aldebran che le Iadi. Da lì a qualche anno, Chambers proseguirà tracciando un luogo popolato da anime perdute e dominato da un sovrano dalla pallida maschera. Il Re Giallo incanala l’abisso divino, emissario di una forza terribile della quale è testimone.

L’oblio cosmico

Il diabolico contesto extra-galattico creato dai romanzieri funge da base per i miti di Lovecraft. Difatti, lo stesso stabilisce l’esistenza di ulteriori dèi rispetto ai nostri, nonché abominevoli entità oggetto di culti degenerati. Quelli che noi abbiamo sempre considerato tali, sarebbero invece ingannevoli espedienti, forniti con lo scopo di dare un senso alla misera esistenza umana. Da quanto apportato si deduce che il cosmo è un calderone di incubi ignorato dalla collettività, ed è soltanto grazie a tale noncuranza se essa può sussistere placidamente. Qualora l’arcano dovesse palesarsi, la comunità collasserebbe in preda al delirio, così come i caratteri inventati da Chambers.

Una volta allacciatosi all’horror cosmico, lo sceneggiatore ne piega l’iconografia affinché aderisca alla dimensione realistica di True Detective. Perciò, ecco che la funzione della pièce teatrale si riversa nello snuff movie posseduto da Tuttle, e ancora, sotto al cappuccio del Re Giallo si celerebbe il governatore dello stato. Senza dimenticare i riti rammentati dall’artista di Providence, tranquillamente accostabili alle liturgie innominabili di Childress o Reginald.

L’anatema di Marty

Martin non potrebbe che essere l’opposto rispetto al partner, ma non per questo si rivela meno interessante da scandagliare. Rifletteremo perciò sull’intrigante nesso che intercorre fra il sopraccennato e una delle consanguinee, evitando di trascurare la relazione che correla il primo alla propria esistenza.

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Un caso irrisolto

La corrosiva psicosfera che contamina la “cloaca” di True Detective avvelena perfino i bambini. A tal proposito, un decadimento psichico pregiudicherà la lucidità della figlia più grande di Marty: come se i fili che la muovessero fossero in realtà tirati da un burattinaio della terribile congrega (si ricordi il termine “marionette biologiche” impiegato da Rust).

Eppure, nonostante certe esteriorizzazioni di Audrey vengano colte, ve ne sono altre che sfuggono agli occhi del padre: troppo impegnato a commettere adulterio o a commentare le partite di pallacanestro davanti alla TV. I disegni a sfondo sessuale che tanto ricordano le scene del crimine, gli omini posizionati in cerchio davanti a una bambola nuda e le spirali abbozzate sui fogli di carta nella casa di Hart, riassumono i segnali di un probabile coinvolgimento (non viene fatta chiarezza a riguardo) della ragazza nelle pratiche arcane già menzionate.

“Vi ricordate la maledizione del detective? La soluzione a tutta la mia vita era sotto il mio naso. Quella donna, quelle bambine… e io ero distratto da tutto il resto. […] Ma il mio vero fallimento è stata la disattenzione. Lo capisco solo adesso”. La confidenza che il marito di Maggie fa all’agente Papania e al collega, ci fornisce il La per ragionare sul caso. Qualora Marty si fosse davvero interessato alle condizioni della figlia, forse avrebbe potuto scoprire qualcosa inerente alle malefatte dei Tuttle. E se le “tracce” lasciate da Audrey avessero permesso all’agente di seguire una pista? Nondimeno, concentrandosi sulle sue frequentazioni, sui docenti che insegnavano all’interno della scuola o sui contatti del preside, chissà che non si sarebbe potuto trovare il bandolo della matassa ben prima del 2012.

La maschera

Ma se agli altri sfugge l’essenza delle cose per via di un “velo”, l’uomo in questione non riesce a comprenderle a causa di una “maschera”. In apparenza, egli rappresenterebbe il classico bianco americano: religioso, con una bella villa, un lavoro gratificante alle spalle e l’adorabile famiglia a circondarlo. Tuttavia, Pizzolatto decostruisce la figura man mano, rivelandone dapprima gli istinti che la governano e successivamente la solitudine in cui si è ritirata. In sostanza, a discapito di una maggior consapevolezza di sé, il poliziotto ha sempre preferito indossare un “calco” che falsamente gli permettesse di affrontare le difficoltà e i drammi importati dallo scorrere del tempo.

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Stelle in una notte buia 

La sezione che anticipa la conclusione del nostro excursus su True Detective, è dedicata tanto a Childress (villain principale dello show), quanto alle conseguenze della colluttazione tra lui e Rust.

Un gigante senza figli

Errol è un soggetto dal fisico imponente e dall’elevata statura: oltre il viso ammaccato, al cui centro risiedono due occhi di ghiaccio, spunta una folta chioma e mentre il petto nudo cela un dorso sfregiato, dei pantaloni coprono gli arti inferiori. Dalle cicatrici sul corpo si evince che il “gigante” ha subito violenze d’ogni sorta, presumibilmente inflitte dai parenti sin da quando era piccolo. Lo stato di trasandatezza della propria immagine si ripercuote nell’abitazione nella quale vive assieme alla compagna; quest’ultima visibilmente provata da qualche forma di demenza. Stanze colme di bambole di pezza alle quali manca il capo, pareti ingiallite, fogli di giornale sparsi, assi di legno spezzate, stoviglie ammassate, vecchie pile di cassette rovinate e rimasugli di cibo avariato decretano le raccapriccianti condizioni psicofisiche nelle quali vertono i due occupanti.

Childress, il cui nome gioca per assonanza con childless (in inglese “senza figli”), non solo uccide donne e bambini, ma tortura quotidianamente il padre all’interno di una fatiscente casupola. Dunque, è possibile reputare questi gesti brutali come prosecuzioni di una logica malata, che punta esclusivamente al disfacimento di qualsiasi legame generazionale edificato dall’uomo.

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Carcosa

Le ultime scene di True Detective riservate allo stupratore sono ambientate all’interno di Carcosa: un labirinto nascosto tra gli anfratti della vegetazione formato da cunicoli interminabili e pareti rocciose. Mentre svariati teschi abbandonati tra le sterpaglie restituiscono un senso di desolazione, parecchi vestiti, orfani dei loro giovani possessori, giacciono per terra imbrigliati nelle ragnatele. Il confronto finale fra il gigante e Cohle non potrebbe avvenire che al centro della complessa struttura. Durante la lotta, Rust viene ferito gravemente all’addome, tuttavia, proprio quando Childress sta per togliere la vita a Marty, precedentemente accorso per proteggere il collega, l’agente lo fredda con un colpo alla testa, salvo poi cadere a terra in uno stato d’incoscienza. L’incubo è giunto finalmente al termine.

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Amore

“C’è stato un momento in cui ho iniziato a scivolare nell’oscurità. Era come se fossi diventato un essere senza coscienza. Con una vaga consistenza nell’oscurità. E sentivo che quella consistenza svaniva. Sotto l’oscurità c’era un’altra oscurità. Un’oscurità che era… era più profonda. Calda. Era come se fosse tangibile. Riuscivo a sentirla, Marty. Ero certo… ero certo che mia figlia mi stava aspettando lì. Era così chiaro. Lei era lì. E insieme, insieme a lei, sentivo come la presenza di mio padre. Era come se fossi parte di tutto quello che ho sempre amato. E a un tratto noi tre stavamo… stavamo svanendo. Era così facile lasciarsi andare. E l’ho fatto. Ho lasciato che cadessi nell’oscurità. E sono scomparso. Ma riuscivo ancora a sentire il loro amore. Anche più di prima. Nient’altro. Nient’altro che il loro amore. E poi mi sono svegliato”.

L’esperienza di coma riportata dall’investigatore texano dopo numerosi giorni di convalescenza in ospedale ne esprime appieno il rimpianto. Già, poiché dopo aver saggiato un mondo dominato da soprusi inenarrabili, liturgie esoteriche ed élite corrotte, la presenza di un aldilà benigno, più caldo e amorevole per quanto buio o indefinito, rappresenta una valida alternativa.

Luce e oscurità

Ad ascoltarlo ovviamente c’è l’amico, il quale per distrarlo, gli chiede di raccontare una storia guardando le stelle. Rusty allora risponde: “C’è solo una storia, la più antica: la luce contro l’oscurità”. Sebbene Marty controbatta facendo notare che le tenebre occupano molto più spazio, Cohle lo contraddice affermando: “Credo che ti sbagli sul cielo stellato. […] Una volta c’era solo oscurità. Adesso la luce sta vincendo”.

Dopo l’ultimo scambio di battute e prima che un taglio al nero conduca ai titoli di coda, la cinepresa volge lo sguardo in alto inquadrando un cielo notturno punteggiato delle stelle. Il finale della serie mostra un personaggio che all’ultimo istante è riuscito a spezzare la spirale di violenza che lo tormentava. Una magra consolazione se si pensa al fatto che gli uomini della videocassetta sono sfuggiti alla giustizia, ma pur sempre un sollievo che ricompensa i diciassette anni di sforzi dei Nostri.

In True Detective il male non è stato annientato, anzi, così come l’imponente quercia più volte invocata, anch’esso rimane ben radicato al suolo in attesa di fiorire nuovamente.

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True Detective: un tracciato esistenziale 

L’opera di Pizzolatto, Fukunaga e Arkapaw attinge a piene mani al cinema noir per riportare in superficie la perdizione dell’animo umano. Gli innesti filosofici e letterarirappresentano le ramificazioni di una scrittura che esplora una società in balia di forze ingovernabili.

I selvaggi scenari della Louisiana mutano in terreni fertili per sofferenze e iniquità, celando, come fossero selve dantesche, individui dalla moralità assente. Un’attenta regia si focalizza sui volti corrucciati, prediligendo spesso l’utilizzo del rack focus (cambio di fuoco all’interno della stessa inquadratura). Mentre il montaggio acuisce il concetto di deformazione temporale grazie a lunghi flashback e abbondanti flashforward, l’impiego di gel dai toni ocra dona alle immagini un aspetto vintage, che ben si sposa con la narrazione frammentata di True Detective.

Tra i brani dell’eccellente colonna sonora spunta Far from any Road della Handsome Family, traccia dalle atmosfere desolanti che rievoca l’intero vissuto di Rust e Marty. E a proposito della coppia, è giusto soffermarsi sulle rimarchevoli prove di Harrelson e McConaughey, i quali contribuiscono a rendere credibili due personaggi agli antipodi. La recitazione spontanea della coppia non cede mai il posto a sbavature di sorta, anzi, le espressioni dell’uno e le emozioni dell’altro si amalgamano perfettamente, irrobustendo la caratterizzazione di entrambi.

Tirando le somme, la prima stagione di True Detective è più di un semplice prodotto d’intrattenimento. Essa rappresenta l’esistenziale percorso di ciascuno, insidiato dalle tenebre e sollevato da timidi fasci di luce. E come per Rust, l’amore è ciò che può definitivamente risvegliare tutti noi… prigionieri di una gabbia oscura.

Grazie dell’attenzione! Continuate a seguire le pagine di NCS per restare aggiornati.

Di Gianluca Panarelli

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