di Redazione Network NCI
La paura è sempre stata un elemento amato dall’umanità. Tra chi si ritrova inevitabilmente attratto da queste storie e chi invece ricerca attivamente quella sensazione di brivido, molti amano le storie di paura. Sarà per questo che i film horror hanno spesso successo. E alcuni riescono a ottenere successo in più modi: non si parla solo di incassi, ma di lasciare gli spettatori davvero spaventati. I migliori horror riescono addirittura a rimanerti attaccati, come una possessione demoniaca. I finali degli horror giocano un grande ruolo in questo. Oggi vedremo alcuni tra i migliori di questi finali. Ovviamente, allarme spoiler.
ALLERTA SPOILER!!!
Top 6 NCS: Finali più disturbanti nei film horror
Numero 6 – The Autopsy of Jane Doe, l’incubo sotto i ferri

Film a basso budget, ma con grande mestiere, diretto da André Øvredal, The Autopsy of Jane Doe è il classico esempio di horror che fa paura non grazie a salti di scena ad alta frequenza, ma perché costruisce lentamente una claustrofobia fisica e intellettuale. La storia si concentra su due protagonisti molto umani, un padre e un figlio (entrambi patologi giudiziari), chiamati a eseguire un’autopsia su un corpo misterioso rinvenuto in circostanze inquietanti. Quello che comincia come un lavoro tecnico diventa rapidamente un confronto con qualcosa che la scienza non sa spiegare.
Il film è concepito come una discesa progressiva: scenografia ristretta (il laboratorio, le scale, l’obitorio), notte fonda, isolamento esterno, tutti elementi classici che diventano qui funzionali a far sentire lo spettatore “intrappolato” insieme ai personaggi. Øvredal usa il ritmo come una chiave: lentezza nelle prime fasi, poi un aumento costante della tensione man mano che le scoperte anatomiche si accumulano. Non è un film che cerca il “brivido” facile: costruisce un sospetto che cresce fino a diventare panico.
Quello che distingue The Autopsy of Jane Doe è l’enfasi sul dettaglio fisico. Le sequenze d’autopsia sono riprese con cura quasi documentaristica: strumenti, incisioni, tessuti e il modo in cui la macchina da presa indugia su oggetti che normalmente non vorremmo vedere. Questo orrore “tattile”, la sensazione del materiale organico, del freddo dell’obitorio, fa molto più effetto di effetti digitali spettacolari. Il corpo diventa un enigma e l’autopsia un rito che svela, a poco a poco, qualcosa di più antico e indecifrabile.
Senza rovinare troppo i dettagli per chi non l’ha visto, il colpo di scena finale non è una semplice “rivelazione mostruosa”: è la dissoluzione dell’illusione di controllo. I protagonisti, che rappresentano la razionalità medica, si trovano di fronte a indizi che sfidano le loro categorie: simboli, anamnesi impossibile, comportamenti del corpo che suggeriscono volontà. Il risultato non è tanto la paura del mostro quanto la sensazione che la scienza non possa spiegare tutto e che certe cose, una volta risvegliate o semplicemente scoperte, non si possano rinchiudere di nuovo. È un finale che trasforma la curiosità professionale in disperazione personale e l’immagine che ti resta è quella della vulnerabilità assoluta: non c’è riscatto, solo l’eco di una domanda senza risposta.
Oltre all’horror evidente, il film lavora su più livelli: il rapporto padre/figlio (con la professionalità che collassa di fronte alla sofferenza), il limite etico della curiosità scientifica e l’idea che alcuni segreti non debbano essere dissotterrati. C’è anche una tensione morale, “cosa si sacrifica in nome della verità?” che dà al film una profondità quasi filosofica, rendendolo più memorabile delle tante pellicole che puntano solo allo shock.
La regia puntigliosa, la scenografia realistica e un sound design che privilegia il rumore organico (sgocciolii, metallo, passi) sono gli strumenti con cui il film costruisce angoscia. Non è necessario urlare: la macchina da presa che segue gesti clinici e lo scorrere dell’orologio funzionano come un metronomo di terrore.
Numero 5 – The Mist, quando la speranza muore un secondo troppo presto

Tratto da un racconto di Stephen King, The Mist è uno di quei film che riescono a farti male senza ricorrere all’eccesso visivo. È una storia di orrore e disperazione che parte da un presupposto semplice: una cittadina del Maine viene improvvisamente avvolta da una nebbia fitta, all’interno della quale si nasconde qualcosa di terribile. Un gruppo di persone si rifugia in un supermercato e da quel momento inizia la lenta decomposizione della società in miniatura.
Frank Darabont (lo stesso di Le ali della libertà e Il miglio verde) dirige con mano sicura un horror che è più psicologico che mostruoso: la nebbia diventa una metafora, e i veri mostri non sono quelli là fuori, ma quelli che emergono dentro ciascun essere umano quando la paura prende il controllo.
All’inizio c’è curiosità e cautela: la nebbia è un enigma, le prime vittime scompaiono in modo inspiegabile e la comunità cerca ancora di aggrapparsi alle regole. Ma presto arriva la rottura: la paura, la religione fanatica, la disperazione. Mrs. Carmody (interpretata magistralmente da Marcia Gay Harden) incarna la nascita del fondamentalismo nel panico, una donna comune che diventa una profetessa del sacrificio, capace di condurre il gruppo al delirio.
Darabont non ha bisogno di mostrarci sempre i mostri: ci lascia immaginare. La violenza psicologica cresce a dismisura e ogni nuova morte dentro il supermercato pesa più delle creature esterne. Il film diventa una radiografia dell’anima collettiva sotto assedio.
E poi arriva quel finale.
David Drayton (Thomas Jane), dopo aver perso ogni speranza, decide di tentare la fuga con un piccolo gruppo di superstiti, tra cui il suo figlioletto. La macchina attraversa la nebbia, ma il carburante finisce. E fuori si sente solo silenzio e qualche ruggito lontano. La pistola ha quattro colpi. Sono in cinque.
In uno dei momenti più laceranti del cinema horror, David sceglie di risparmiare ai suoi cari una morte orrenda. Spara, uno dopo l’altro, finché rimane solo. Poi esce dall’auto, pronto a farsi uccidere dai mostri.
E la nebbia, come per una beffa divina, si dirada.
Davanti a lui arrivano i militari, i sopravvissuti, i mezzi di soccorso.
Era finita.
Ce l’avevano fatta.
Ma lui no.
Il finale di The Mist non è solo tragico: è inumano nella sua ironia cosmica. Tutta la tensione, tutta la lotta, si risolve in una beffa del destino. Non c’è catarsi, non c’è riscatto, solo il peso insostenibile di una decisione sbagliata, compiuta per amore e paura insieme.
Darabont, che cambiò di proposito il finale rispetto alla versione di Stephen King (dove la speranza rimaneva aperta), ha costruito un epilogo che annulla ogni conforto. Non è la morte che spaventa, ma il tempismo crudele dell’universo. E Thomas Jane, nel suo grido finale disperato, riesce a racchiudere l’intera essenza dell’horror: il dolore che non si può più annullare.
Girato con un look volutamente grezzo, quasi documentaristico (Darabont usò la troupe di The Walking Dead), il film è un raro caso di horror apocalittico dove il suono e il silenzio contano più degli effetti speciali. La nebbia non nasconde solo le creature, ma l’incertezza. E il silenzio che precede la tragedia finale è più spaventoso di qualsiasi urlo.
Il finale di The Mist è disturbante non perché mostra qualcosa di orribile, ma perché rivela quanto può esserlo l’amore stesso: la volontà di proteggere, distorta in tragedia. È un finale che lascia muti, che spegne la speranza e la riaccende un secondo dopo, solo per distruggerti del tutto.
Numero 4 – Sleepaway Camp, l’urlo che non puoi dimenticare

All’inizio, Sleepaway Camp sembra uno dei tanti slasher estivi che volevano seguire l’onda di Venerdì 13. Campeggio, adolescenti arrapati, scherzi crudeli e un misterioso assassino che inizia a eliminare i presenti uno a uno. La regia di Robert Hiltzik, però, nasconde qualcosa di più. Sotto la superficie patinata e quasi comica del tipico teen horror americano, c’è una tensione sotterranea, un disagio che cresce scena dopo scena, come se ogni dettaglio, ogni sguardo, avesse qualcosa di “fuori posto”.
La protagonista è Angela, una ragazzina timida e silenziosa, segnata da un trauma d’infanzia: un incidente in barca le ha portato via il padre e il fratellino. Ora vive con una zia strana e invadente e va in campeggio con il cugino Ricky. Ma Angela non parla quasi mai. È schiva, fragile, e diventa presto il bersaglio di bullismo da parte degli altri ragazzi.
Finché le morti iniziano.
Il film è una lenta escalation di violenza: bolliture, accette, coltelli, frecce e una regia che insiste più sulla reazione che sull’atto, lasciando spesso l’omicidio fuori campo. La suspense cresce anche grazie a un tono ambiguo: Sleepaway Camp non è mai del tutto serio, ma nemmeno grottesco al punto da far ridere. È uno di quei film dove il pubblico si rilassa, proprio prima che qualcosa lo colpisca allo stomaco.
Durante tutta la storia, il “chi è l’assassino?” rimane il motore. Tutti sospettano di tutti. Ma nessuno sospetta Angela, la piccola ragazza dagli occhi tristi e lo sguardo vuoto.
Quando finalmente i sopravvissuti trovano Angela nuda sulla spiaggia, tenendo in mano la testa mozzata del suo fidanzatino, arriva la rivelazione.
La telecamera indugia, lentamente, nel buio.
Angela si alza.
E l’inquadratura si apre.
La musica si ferma.
Angela non è Angela.
Angela è Peter, il fratellino creduto morto nell’incidente.
La zia, disturbata e ossessionata dal desiderio di avere una “figlia”, lo aveva costretto a crescere come femmina.
Il grido che segue, quel suono inumano, misto di dolore, rabbia e alienazione, è uno dei momenti più disturbanti della storia dell’horror. La camera resta ferma sul volto di Angela, bocca spalancata, occhi vuoti, mentre il corpo nudo (interpretato da un attore maschio, con una maschera prostetica grottesca) rimane immobile davanti a noi, a metà tra umano e mostro. L’immagine diventa un incubo visivo impossibile da dimenticare.
Non è solo il twist finale, ma come viene costruito. Tutto il film lavora inconsciamente sul tema dell’identità, della repressione e della violenza dell’innocenza negata. Angela è vittima e carnefice, bambino e bambina, fragile e letale allo stesso tempo. Quando si rivela per ciò che è, non c’è liberazione, solo confusione e terrore. Non capiamo se provare pena, orrore o compassione. E quella reazione, il non sapere cosa provare, è il segreto di ogni finale veramente disturbante.
Negli anni, Sleepaway Camp è diventato un cult assoluto, amato e odiato allo stesso tempo. Il suo finale viene ancora oggi discusso per la sua potenza visiva e per l’impatto psicologico: in pochi secondi, distrugge tutto ciò che lo spettatore credeva di sapere. Non è solo una “sorpresa”: è un trauma visivo. Il tipo di scena che ti fa restare a fissare lo schermo in silenzio per minuti dopo i titoli di coda.
Numero 3 – Midsommar, l’abbraccio del Sole

Ari Aster, dopo Hereditary, firma con Midsommar un horror che capovolge le regole del genere.
Niente oscurità, niente fantasmi, niente ombre. Tutto accade alla luce del sole, tra fiori, canti, danze e sorrisi.
Eppure, è un film che scava dentro, che consuma lentamente, un viaggio nel dolore, nel lutto e nella manipolazione emotiva.
La protagonista, Dani (Florence Pugh), è una giovane donna devastata: la sorella bipolare ha ucciso i genitori e sé stessa, lasciando Dani completamente sola. Il suo fidanzato, Christian, è emotivamente distante, incapace di darle vero sostegno, ma troppo codardo per lasciarla. Quando un amico del gruppo propone un viaggio in Svezia, presso la sua comunità isolata che celebra un misterioso festival pagano ogni 90 anni, Dani accetta. E lì, sotto un sole che non tramonta mai, inizia il suo lento risveglio, o la sua completa discesa.
La comunità di Hårga accoglie i visitatori americani con calore e rituali apparentemente innocenti. Ma la serenità si incrina presto: sacrifici, suicidi rituali, droghe e una costante sensazione che tutto sia perfettamente calcolato. Aster costruisce il terrore attraverso la calma, non attraverso il caos: ogni sorriso è inquietante, ogni canto sembra una preghiera e una condanna allo stesso tempo. Dani, fragile e costantemente sull’orlo del crollo, trova in quella comunità qualcosa che non ha mai avuto: comprensione. Quando piange, loro piangono con lei. Quando urla, loro urlano insieme. Per la prima volta, non è sola.
E intanto, Christian si rivela per ciò che è: egoista, immaturo, manipolatore. La sua incapacità di provare empatia diventa il vero motore del dramma. E la comunità lo sa.
Dopo aver vinto il titolo di Regina di Maggio durante una danza estenuante e ipnotica, Dani viene incoronata tra fiori e canti. Avvolta in un manto floreale, è simbolo di rinascita, fertilità e luce. Ma quella “rinascita” ha un prezzo.
La comunità deve sacrificare nove vite per completare il rito. Otto sono già state scelte. La nona dev’essere scelta da Dani: un sacrificio a caso o Christian. E mentre Christian, drogato e incapace di muoversi, osserva con orrore, Dani, ormai completamente assorbita nel culto, sceglie lui.
Christian viene rinchiuso dentro la carcassa di un orso, simbolo del male da purificare. La capanna del sacrificio viene incendiata. Le fiamme divorano tutto. Gli adepti urlano di dolore e la macchina da presa torna su Dani, che guarda il rogo bruciare.
Per un attimo, piange. Poi, lentamente, sorride. Un sorriso impercettibile, deformato, liberatorio e mostruoso allo stesso tempo. Un sorriso che dice: “finalmente non sono più sola”. Un sorriso che congela il sangue.
Il finale di Midsommar è disturbante non per la violenza, ma per l’empatia che ci costringe a provare.
Dani non è un mostro, è una ragazza distrutta che ha trovato la sua “famiglia” nel posto più sbagliato possibile.
Ma il modo in cui Ari Aster orchestra la catarsi, musica, ritmo, luce, sguardo, fa sì che noi stessi partecipiamo al rito. Per un istante, quasi comprendiamo la sua scelta. E questo è ciò che rende il finale così inquietante: l’orrore diventa comprensibile.
Il finale di Midsommar è uno dei più discussi e analizzati del cinema contemporaneo. Florence Pugh regala una performance straordinaria, trasformando la sofferenza in potere, la fragilità in sorriso. È un finale che non spaventa con la morte, ma con la pace. Una pace tanto totale da sembrare innaturale. Una calma che urla.
Numero 2 – Hereditary, l’eredità del terrore

Con Hereditary, Ari Aster riscrive il linguaggio dell’horror moderno. Non ci sono mostri, case infestate o esorcismi classici. Ci sono solo famiglie distrutte, lutti irrisolti e un’oscurità che sembra provenire non dall’esterno, ma dal sangue stesso.
La pellicola ruota attorno ad Annie Graham (Toni Collette), una madre scultrice che tenta di elaborare la morte della madre, con cui aveva un rapporto profondamente ambiguo. La famiglia è composta anche dal marito Steve, dal figlio Peter (Alex Wolff) e dalla figlia Charlie (Milly Shapiro), una bambina inquietante e taciturna, dal volto impenetrabile e dal tic sonoro del “click” della lingua che diventerà marchio di fabbrica del film.
Fin da subito si percepisce qualcosa di malato, un’inquietudine sottopelle. Le miniature di Annie, che riproducono in scala gli ambienti familiari, diventano la metafora perfetta: una famiglia manipolata da forze invisibili, come bambole in un teatrino di dolore.
Arriviamo alla scena che ha traumatizzato intere platee.
Durante una festa, Peter è costretto a portare con sé la sorella Charlie.
Lei mangia una fetta di torta contenente noci, a cui è allergica.
In preda al panico, Peter la carica in auto e sfreccia verso l’ospedale.
Charlie non riesce a respirare, apre il finestrino per prendere aria…
…e in un colpo secco, una trave di legno la decapita.
Silenzio assoluto.
Peter non si ferma. Non urla. Non piange.
Torna a casa, si sdraia nel letto, e aspetta.
La macchina resta nel vialetto, con la testa di Charlie che marcisce sotto il sole, coperta di mosche.
È una delle scene più mutamente devastanti mai girate, e da quel momento Hereditary cambia forma.
Da dramma familiare si trasforma in un incubo cosmico.
Annie inizia a sospettare che la madre appartenesse a una setta. Una donna misteriosa, Joan, la introduce a rituali spiritici per comunicare con Charlie. Ma ciò che Annie risveglia non è lo spirito della figlia, è qualcos’altro.
Il film diventa progressivamente più allucinato, sempre più disturbante. Le figure nude nell’ombra, gli oggetti che si muovono da soli, la testa di Charlie che ricompare come un simbolo satanico, tutto culmina in un crescendo che travolge il pubblico. Ogni elemento apparentemente “familiare” diventa un presagio di dannazione.
Nel climax, Annie viene completamente sopraffatta. Il marito brucia vivo, Peter viene inseguito dalla madre posseduta, che in una scena agghiacciante si taglia la testa con un filo di metallo, sospesa nel vuoto.
Peter fugge in soffitta, ma trova lì la verità: fotografie, simboli e il corpo decapitato della nonna inginocchiato in venerazione.
Poi, un tonfo. Annie, ormai morta, si libra nel vuoto e decapita sé stessa. Peter salta dalla finestra e perde conoscenza. Quando si rialza, qualcosa dentro di lui non è più Peter.
Il corpo del ragazzo viene lentamente posseduto. Una voce, quella di Joan, lo chiama “Charlie”. Poi rivela la verità: Charlie non era mai Charlie. Era Paimon, uno degli otto re dell’Inferno, intrappolato in un corpo femminile e ora finalmente reincarnato nel corpo maschile di Peter, come il culto aveva sempre voluto.
Peter, o Paimon, entra lentamente nella casetta sull’albero, illuminata da una luce irreale. Attorno a lui, i membri della setta nudi, in ginocchio. Il corpo senza testa di Annie e della nonna sono esposti come offerte. Una voce solenne pronuncia l’incoronazione del demone. E la macchina da presa si alza, lentamente, mentre un coro angelico accompagna l’ascesa.
La musica è serena. La luce è dorata. Ma ciò che vediamo è l’inferno presentato come paradiso. È il finale più blasfemo e disturbante possibile: la vittoria assoluta del male, celebrata con calma, con devozione, con amore.
Perché Ari Aster non ti spaventa con i jumpscare. Ti spaventa con la inevitabilità. Fin dal titolo, tutto era già deciso: Hereditary, “ereditario”.
Il male non arriva da fuori.
È dentro di te. È nel sangue, nella famiglia, nella madre, nel figlio.
Non puoi fuggire, perché ciò che sei ti condanna. E il film non si chiude con un urlo o una fuga.
Si chiude con un’invocazione sacra, una calma divina.
La pace dell’inferno.
Hereditary è considerato da molti il nuovo “L’Esorcista” della nostra epoca. Un film che rifiuta ogni facile spiegazione, ogni sollievo. L’orrore non si risolve, si eredita.
Numero 1 – The Wailing, tra fede e disperazione

Quando nel 2016 il regista sudcoreano Na Hong-jin (The Chaser, The Yellow Sea) presenta The Wailing al Festival di Cannes, il pubblico rimane spiazzato. Non è un horror convenzionale, ma un mosaico di fede, superstizione e disperazione umana, che fonde il dramma rurale con l’occulto più cupo e una tensione da thriller poliziesco.
Il film racconta la storia di Jong-goo, un poliziotto di un piccolo villaggio di montagna, dove iniziano a verificarsi strani e brutali omicidi. Gli abitanti, in preda al panico, sospettano di uno straniero giapponese che vive isolato nei boschi. All’inizio tutto sembra riconducibile a un’epidemia o a una psicosi collettiva. Poi, lentamente, le spiegazioni razionali iniziano a disintegrarsi, lasciando spazio a qualcosa di più oscuro, qualcosa di demoniaco.
Quando la figlia di Jong-goo si ammala e comincia a manifestare comportamenti sempre più inquietanti, occhi vitrei, voce distorta, violenza improvvisa, la realtà collassa. Il poliziotto, disperato, si rivolge a uno sciamano per salvarla. Ma ogni rituale, ogni tentativo, sembra solo peggiorare le cose.
Da quel momento, The Wailing diventa una spirale di caos: le vittime si moltiplicano, le prove si contraddicono tra di loro, nessuno sa di chi fidarsi. L’uomo giapponese? Lo sciamano che afferma di voler aiutare? O la donna vestita di bianco che appare come un angelo, ma la cui vera natura è ignota?
Arriviamo al climax: una lunga sequenza di rituali paralleli. Lo sciamano esegue un esorcismo estenuante, pieno di tamburi, urla e sangue; nel frattempo, lo straniero sembra compiere un rituale simile, ma con simboli e gesti opposti. Chi sta purificando e chi sta corrompendo? Non lo sappiamo. E Na Hong-jin si diverte a lasciarci in bilico.
Jong-goo, spaventato, interrompe il rituale, credendo che lo sciamano sia il male. Quando torna a casa, però, trova la figlia completamente posseduta. Gli occhi neri, la voce cavernosa, il sorriso disumano. È tardi. Ha scelto di credere alla persona sbagliata.
Il film termina con lui, morente, accanto ai corpi della sua famiglia. La bambina, lentamente, si avvicina a lui.
Gli accarezza il volto, come se per un istante tornasse sé stessa. Poi, in un ultimo atto di orrore, lo guarda con un’espressione vuota e mormora qualcosa d’incomprensibile.
La macchina da presa indugia sul suo viso, mentre la luce si spegne. Il male ha vinto. Ma il film non te lo dice chiaramente, te lo fa sentire.
Nel finale alternato, la donna in bianco rivela la sua vera forma angelica, ma troppo tardi: l’errore di Jong-goo ha già condannato tutti. Intanto lo straniero giapponese, forse un demone, forse il Diavolo stesso, raccoglie fotografie delle sue vittime, sorridendo. Il prete che aveva indagato tenta di scattargli una foto con la croce e quando lo fa, il flash rivela un’immagine mostruosa, deforme, infernale. La risposta che cercavamo, se mai è reale, arriva solo quando ormai non serve più a niente.
Perché The Wailing non ha una risposta definitiva. Non ci dice chi è il male, chi è il bene, o se la fede serva a qualcosa. Ogni certezza, religione, razionalità, superstizione, fallisce. Alla fine, rimane solo il dubbio. E il dubbio, nell’orrore, è più devastante della paura stessa.
È il film in cui il pubblico diventa parte della tragedia, perché anche noi cerchiamo di capire, di razionalizzare.
Ma Na Hong-jin ci lascia in quello stesso abisso in cui sprofonda Jong-goo: quello dell’uomo che cerca Dio e trova il Diavolo, che cerca la verità e trova il caos, che cerca di salvare la figlia e finisce per ucciderla.
Il film non chiude con una lezione morale, ma con un sussurro. Un mormorio che continua anche dopo i titoli di coda. E nella tradizione dell’horror più puro, The Wailing non ti spaventa con ciò che mostra, ma con ciò che lascia non detto. Perché a volte, la paura più grande è non sapere se il male è fuori di casa o seduto a tavola con te.
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Articolo di Lorenzo Giorgi
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