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Sanctuary, la recensione: un seducente gioco di ruoli

di Lorenzo Procopio

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Arriva nelle sale “Sanctuary – Lui fa il gioco. Lei fa le regole”, diretto da Zachary Wigon e presentato al Toronto Film Festival dello scorso settembre. Con un dinamico impianto teatrale, il film vede Margaret Qualley e Christopher Abbott assoluti protagonisti di un racconto seducente, una lotta tra sessi, un gioco perverso e ammaliante che trascina lo spettatore nella sua spirale.

“Sanctuary”: psicologia e perversioni in una camera di hotel

Si apre sull’immagine di un uomo solo, “Sanctuary”, un uomo in attesa che osserva un orologio. Si apre in una stanza d’albergo, lussuosa e un po’ asettica, una tipica suite d’hotel nella quale l’uomo si muove in modo disinvolto. Ma anche una stanza dalla quale il film non si allontanerà mai, nonostante i ripetuti tentativi.

Hal (Christopher Abbott), rampollo di un’agiata famiglia di albergatori, fa entrare Rebecca (Margaret Qualley), dominatrice e professionista del sesso con cui ha un morboso – e perverso – rapporto di dipendenza. Rapporto che si illuminerà ben presto attorno alla dinamica del gioco di ruoli, della finzione, della simulazione, capace di ribaltare le dinamiche di potere tra i due, quelli sì tra cliente e dipendente, ma soprattutto tra la remissività del primo e la predominanza emotiva dell’altra, tra agito e agente, tra schiavo e padrona. Una sorta di catena di (inter)dipendenza che minaccia di essere spezzata e che innescherà un sottile e profondo scontro psicologico tra i due.

 

La dinamica psicologica del gioco

Quella del gioco è una perfetta metafora del rapporto-scontro tra i sessi, messo in campo dai due protagonisti all’interno di un luogo fisico che si trasforma in terreno virtuale. Hal e Rebecca sono le uniche due componenti della propria rappresentazione, che di volta in volta assumono le maschere di un copione scritto per scardinare l’accesso agli impulsi più reconditi dei protagonisti. Solo attraverso il gioco, l’impersonificazione delle parti, i due entrano in contatto con la loro parte più vera, quella che al di fuori – di quella stanza, nella vita pubblica – sarebbe ostracizzata.

In questo senso potremmo leggere l’azione di “Sanctuary” come una rappresentazione psicologica, che affida l’Es – gli impulsi primitivi della persona – al gioco di ruolo, emblematicamente relegato all’interno della stanza, mentre invece il Super Io – la coscienza etica e morale – è rappresentato dalla vita “esterna”, che minaccia di interferire (o meglio far finire) il gioco. Sarà la componente dell’Io – ossia quella di mediazione tra le altre due – a fornire il risultato dello scontro, lo stesso portato avanti dalla sfrenata e seducente Rebecca e dal passivo e remissivo Hal.

Il rapporto tra i sessi è insomma mediato dal contesto ludico, che si fa allo stesso tempo metafora dell’amore (tossico, se vogliamo) e della stessa società relazionale contemporanea. Quelli di gamification e ludicizzazione del piacere sono concetti che caratterizzano sempre più la nostra vita sociale, a partire dai social network e passando dalle app di dating. Ed è in questa ottica che si intravede con ancora più forza l’accezione metanarrativa che “Sanctuary” dipinge, non solo nel far riferimento a parti e copioni.

 

Il gioco delle coppie: i caratteri contrapposti di “Sanctuary”

Copione d’altra parte – quello della sceneggiatura, scritta da Micah Bloomberg – che risulta sempre maniacalmente misurato, oscillante tra i due caratteri contrapposti che costruisce. Regista e sceneggiatore si mostrano profondamente interessati allo spettro di comportamento dei personaggi, costruendo l’azione in modo da svelarne passo dopo passo la psicologia.

Rebecca è prima seducente e irresistibilmente femme fatale, poi ferita e vendicativa, poi appassionata amante, vorace e manipolativa, infine madre-padre conciliante. Hal indossa innanzitutto la maschera del suo status (l’uomo che possiede) ma si sente in realtà fuori luogo nella sua posizione, preferisce essere guidato e soggiogato (l’uomo che è posseduto), per quanto provi inutilmente a ribellarsi ai suoi sentimenti di passività.

La scelta dei due attori risulta praticamente perfetti per i propri ruoli: da una parte Margaret Qualley, dotata di una grandissima espressività, a tratti sfrenata e imprevedibile, capace di cambiare rapidamente registro. Dall’altra Christopher Abbott lavora maggiormente sulle microespressioni: grazie ad una mimica facciale chirurgicamente misurata riesce a suggerire diverse emozioni interiori, sempre solo accennate e in procinto di esplodere.

 

Tra spazi reali e spazi virtuali

In questo gioco di coppia e di ruoli ha un ruolo fondamentale la regia, che alterna momenti di claustrofobia — con dettagli ravvicinati dei volti, la camera a mano, la focale lunga che appiattisce gli ambienti – ad altri in cui lascia prendere fiato allo spettatore, usando focali corte e ampliando lo spazio in cui si muovono gli attori.

Lo spazio della camera in cui si svolge l’azione dopo un po’ finisce per perdere la sua reale configurazione, presentandosi più come uno spazio virtuale (dalle dimensioni insondabili) che uno reale: un terreno di gioco, appunto, ancor più che una camera di hotel, e ancor più uno spazio psicologico, su cui i personaggi proiettano il proprio inconscio.

L’impianto teatrale e il dinamismo del ritmo

Sanctuary” si regge tutto sul proprio ritmo: quello dei dialoghi, energicamente musicali e sempre misurati sull’espressività delle diverse emozioni in gioco; quello dell’azione, che passa da una scena all’altra senza soluzione di continuità, ogni volta riposizionando al centro l’attenzione come in un’altalena perfettamente bilanciata; infine il ritmo delle macro sequenze, classicamente divise in tre (atti), intervallate da una breve ellissi temporale, così da abbracciare infine l’arco di un’intera notte.

Ciò che sorprende di più è proprio la sua struttura. Il film potrebbe essere una pièce teatrale nel suo rispetto delle tre unità aristoteliche, ma al contrario di quanto possa sembrare risulta tutt’altro che “statico”. Zachary Wigon, impegnato nella promozione dell’opera, ha rivelato che la sua volontà fosse quella di realizzare una pellicola “stilisticamente aggressiva”. E questa forma di aggressione – visiva – si percepisce costantemente nell’estrema dinamicità con cui la macchina da presa segue i personaggi e ne incornicia i volti, fendendo gli spazi in cui si muovono. Ma è anche un’aggressione – emotiva – quella messa in campo nel rapporto tra i due protagonisti, specialmente da Margaret Qualley, il cui potere dominatore funziona tanto sul rivale quanto (perversamente) sullo spettatore.

Conclusioni

Nonostante la presenza di due soli protagonisti, mossi in un unico ambiente in perfetto stile teatrale, “Sanctuary” si dimostra un film coinvolgente, a tratti seducente, ipnotico nel suo gioco di ruoli tra i personaggi e dinamico nel sapiente uso della macchina da presa di Zachary Wigon. È una sottile lotta di potere e di finzioni quella messa in scena tra Margaret Qualley e Christopher Abbott, che finisce per trascinare lo spettatore nel suo vortice di psicologia e perversioni.

Pro

  • Regia dinamica che aggredisce lo schermo, incalzando la visione;
  • Margaret Qualley istrionica e seducente, Christopher Abbott chirurgicamente misurato;
  • Gioco di ruoli/di specchi che disorienta e cattura lo spettatore.

Contro

  • A tratti volutamente artificioso;
  • Finale che spinge sulle note dell’assurdo, preoccupandosi maggiormente di dare adito a implicazioni e suggerimenti di senso.

 

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