di Ascanio M. de Lorenzo
Martha Is Dead, uscito lo scorso febbraio, è stato un gioco sulla bocca di molti, sia per la trama sorprendente che per l’eccessivo polverone creatosi a causa delle censure. Il gioco è un oscuro e drammatico thriller psicologico, a tratti definibile anche horror, ambientato nell’Italia del 1944. Mentre il conflitto tra la Germania e le Forze Alleate diventa sempre più intenso, viene rinvenuto il corpo di una giovane ragazza, Martha, sorella gemella della nostra protagonista Giulia e figlia di un soldato tedesco. Giulia dovrà affrontare il pesante trauma della perdita nell’incessante ricerca della verità sull’omicidio della sorella.
Il gioco è stato creato dalla casa di sviluppo LKA, già famosa per il loro precedente titolo, The Town of Light, e vincitrice del Best Innovation Game agli Italian Game Awards del 2022. A seguire trovate le domande del team NCR al gentilissimo e professionale Luca Dalcò, game director e sceneggiatore di The Town of Light e Martha is Dead.
Essere sviluppatori in Italia
Com’è essere sviluppatori di videogiochi in Italia oggi? Il nostro paese secondo te si sta aprendo un po’ di più verso questo settore o c’è ancora molto da fare in tal senso?
“Io direi che, sì, esistono dei limiti, nel senso che in Italia ci sono tutte le difficoltà di vivere in un paese poco sviluppato in questo settore, come mettersi in contatto con istituzioni che non sono molto preparate, oltre alla mancanza di figure professionali di alto livello che ti permettono di sviluppare nel migliore dei modi. Da questo punto di vista sicuramente si accusa un po’ il colpo. Magari si pensa che basti andare a pescare fuori dall’Italia la figura che ti può servire, ma ti rendi conto che il budget di sviluppo è molto più basso nel nostro paese rispetto ad alcuni paesi esteri”.
“Purtroppo bisogna fare i conti con una cultura proprio differente, anche per il fatto che c’è spesso una percezione sbagliata del videogioco e questo porta tutte le incomprensioni possibili e immaginabili. Ma arrivare a dire che in Italia i giochi vengono sempre e comunque visti male secondo me è eccessivo, ma parlo soprattutto in base alla nostra esperienza“.
Com’è stata l’accoglienza per i vostri titoli, The Town of Light e Martha is Dead?
“Siamo stati percepiti molto bene dalla stampa generalista, oltre che quella di settore. Sono stati accettati molto di cuore questi due progetti, vedendo soprattutto di buon occhio il fatto che in un videogioco potessero esserci valori culturali. Ma credo che essere sviluppatori non sia facile neanche in altri paesi. Spesso, quando ci sono le difficoltà, si cerca sempre di immaginare come sarebbe lavorare altrove, ma penso che sia più corretto pensare a rimboccarsi le maniche e far andare bene le cose nella zona in cui ci si trova. Bisogna fare i conti, se si vuole rimanere in Italia, con quello che è il mercato qui e cercare di sfruttare quello che abbiamo a disposizione. Noi questo l’abbiamo fatto, ad esempio, con il territorio”.
“Il territorio italiano è stato un grande plus per i nostri lavori, perché non è sfruttato a dovere da un punto di vista dell’immaginario collettivo, se non per motivi di turismo. L’ambiente italiano del videogioco è poco conosciuto ed è un peccato, in quanto possediamo un ambiente di una ricchezza spaventosa. Spesso vedo studi che si mettono a fare ambientazioni oltreoceano e in quel caso, secondo me, ci si va più facilmente a mettere in difficoltà. Bisogna sfruttare quella che è la nostra sensibilità, la nostra cultura, essendo i più bravi nel cogliere le sfumature, anche perché, quando si tratta la propria terra, la materia diventa naturalmente un po’ più semplice“.
Gameplay, finali ed esperienze di gioco
Uno dei punti forti di Martha is Dead è il saper raccontare una storia molto inquietante, in maniera analoga a come potrebbe fare ad esempio un film. Portando lo spettatore, in questo caso il giocatore, dove volete che vada. Pensi si possa insistere su questa strada?
“Io credo che una grande storia possa ritagliarsi sempre la sua parte e la sua fetta di pubblico, la sua nicchia, se vogliamo così definirla. Le grandi produzioni sono talmente grandi da dover accontentare veramente troppe persone, oltre ad essere sempre internazionali, trovandosi quindi a doversi confrontare con differenze culturali tra diversi paesi. In più ormai abbiamo fasce d’età, nei videogiocatori, che vanno dai 12 fino ai 60 anni, e quindi è diventato un parco talmente ampio da accontentare che diventa sempre più difficile tenerlo in considerazione”.
“Le piccole produzioni, rispetto alle grandi, possono però prendersi i loro rischi, ma non perché siano più coraggiose, ma perché sono indirizzate ad una fetta di pubblico minore anche se creassero un gioco adatto a tutti i gusti. Questo, secondo me, può portare a pensare che sia maggiormente conveniente osare il più possibile, in quanto questo ti rende più attrattivo per una specifica fetta di pubblico che ama quello che vede. Non ci facciamo spaventare dal fatto che una parte del pubblico potrebbe non apprezzare il nostro prodotto, e questa è stata un po’ la nostra politica sia per The Town of Light che per Martha is Dead“.
Una grande storia da raccontare può ancora sopperire ad un gameplay più marginale?
“Voler introdurre una certa dose di gameplay che però non vada comunque a rovinare la storia, è sempre un lavoro molto difficile. Troppo gameplay a volte può essere distruttivo nei confronti di una storia, soprattutto se parliamo di una storia d’autore. Si possono anche fare dei giochi dove le storie si creano proprio attraverso il gameplay, ma lì siamo in un altro settore”.
“Bisogna trovare quindi il giusto compromesso, essere in grado di non rovinare la storia con il gameplay, ma allo stesso tempo non dare al giocatore la sensazione di essere in un walking simulator, in un corridoio guidato. Bisogna dare la sensazione di essere artefici di quello che succede nel mondo di gioco. Io sono molto “nemico” dei finali multipli, delle diramazioni, perché dal mio punto di vista, se tu hai un grande finale, il fatto che ce ne sia un altro lo rovina, perché non c’è più quella stabilità che dà forza al finale. Questo accade soprattutto quando parliamo di un finale drammatico”.
“Quando vuoi rappresentare la realtà della vita, ci vuole proprio questa impossibilità ad avere un’alternativa, perché quando sei in una certa situazione, non puoi fare nulla per mutarla, e questo secondo me è abbastanza importante. Ovviamente sono punti di vista, però questo è l’approccio che abbiamo dato al nostro storytelling. Adesso va molto di moda dire che il finale in fondo non è importante, ma io non sono per niente d’accordo, insomma, se un finale non conta, allora non conta nemmeno l’inizio della storia? Se non abbiamo un buon finale e non abbiamo un buon inizio, si perde tanto, ma ripeto che qui si entra nella soggettività delle opinioni personali“.
Spesso si gioca proprio per raggiungere quel finale tanto bramato, per capire come finisce una storia che ci ha appassionato. Infatti accade che se rimaniamo delusi dal finale, tendenzialmente andiamo a rivalutare di molto anche l’esperienza complessiva.
“È proprio così, quando il finale delude allora rimaniamo delusi dall’intera esperienza. Io sono anche un grande appassionato di cinema e probabilmente si capisce dal tipo di prodotti che mi piace creare con tutto il team. Io però, in quanto direttore artistico e sceneggiatore, cerco a volte proprio la linearità che offre il cinema, il poter raccontare una storia che inizia in un modo e finisce nel medesimo. Ma bisogna sempre rendersi conto che, almeno per il mio parere, cinema e videogiochi sono due media molto più diversi di quello che a volte si crede. Nel videogioco ci sono grandi storie, sicuramente, ma molte meno rispetto al mondo del cinema“.
“Quando giochi a determinati videogiochi, è proprio la storia che lascia un segno dentro te e sono quei giochi che poi rimangono di più nel cuore. Tornando al discorso di prima, invece, ci sono giochi basati solo sul gameplay e io li trovo un pochino diversi rispetto ai giochi di cui ho parlato finora. A me, ad esempio, piacciono molto i simulatori di guida, e lì la storia non c’è, si guida e basta. È un’esperienza diversa, è una sfida, ci avviciniamo più al mondo dello sport, no? Entrano in gioco, abilità, riflessi, capacità, precisione, mentre nel gioco narrativo ci avviciniamo di più all’intrattenimento cinematografico, al piacere di vivere una storia con l’aggiunta dell’interazione“.
L’importanza dell’ambientazione all’interno di un videogioco
Come ti è venuta l’idea di scegliere proprio la campagna Toscana come ambientazione di Martha is Dead? C’è un motivo particolare dietro la scelta di ambientazione ed epoca?
“Questa possiamo vederla come un’eredità di The Town of Light, dove c’è proprio la volontà di sfruttare un patrimonio di conoscenze su quel periodo storico, sulla Toscana, dove troviamo il piacere di raccontare il nostro territorio. Se usciamo dalla sede ci ritroviamo immediatamente nel mondo di Martha e questo aiuta a sviluppare una grande sensibilità nei confronti della storia. Mi piace, nel videogioco, che l’ambientazione sia uno specchio del protagonista. Qui ci ritroviamo una protagonista giovane, ma con con delle ombre rappresentate perfettamente da questi ambienti un po’ bucolici“.
Questo infatti possiamo notarlo molto anche dal ciclo giorno-notte, dove risaltava questa differenza nello stato d’animo della protagonista e del giocatore.
“Esattamente, il giocatore vive un rapporto diretto con l’ambiente, lo deve esplorare, lo deve conoscere, deve sapersi orientare. Il rapporto che instaura è tra le cose più importanti, quindi perché non rendere di fatto l’ambientazione una protagonista? Non ha un ruolo marginale, non è un’ostacolo, anzi, racconta la storia attraverso le emozioni suscitate e attraverso gli oggetti ritrovati”.
Quindi possiamo dire che l’ambientazione non fornisce solo un semplice contesto della storia, ma aiuta proprio il giocatore ad immergersi all’interno?
“Assolutamente, questa è la linea che abbiamo intenzione di mantenere per i nostri futuri titoli. Ovviamente non racconteremo sempre storie di giovani ragazze, si potrebbe pensare ad un ambiente completamente diverso, ma l’idea rimane quella, usare l’ambiente non solo per creare suggestione, ma per immergere il giocatore come se fosse all’interno di un ventre simbolico, dove si svolge la reale vita del gioco“.
L’ispirazione e la difficile collocazione del genere per giochi come questo
Ci sono altri titoli o libri che ti hanno ispirato per la condizione psicologica della protagonista? O magari anche veri casi di determinati disturbi mentali.
“Martha is Dead, possiamo dire, è un progetto del tutto originale, nel senso che non c’è uno specifico titolo, film o libro che ci ha realmente folgorato o è stato di grande ispirazione. Discorso diverso è per The Town of Light, dove il titolo nasce ad un conseguente incontro con il manicomio di Volterra“.
Il titolo oggi viene riconosciuto come un horror psicologico, ma la malattia mentale può essere il “mostro” di questa storia?
“Io sono molto affascinato dal genere horror, ma soprattutto da un settore particolare che fortunatamente sta prendendo molto piede negli ultimi anni. Preferisco i film e i videogiochi dove l’horror diventa un linguaggio, uno strumento, per parlare di qualcos’altro di molto più profondo. La finalità è far immedesimare il giocatore, e noi abbiamo cercato di farlo attraverso la malattia mentale. Abbiamo cercato di comunicare al giocatore la sofferenza e lo strazio che si prova nell’essere afflitti da queste malattie. Se ci pensiamo bene, non riconoscere ciò che ci circonda, perdere i riferimenti della realtà, sono cose spaventose con cui si riesce facilmente ad empatizzare. Non sapere più cosa è reale e cosa no, deve essere terribile”.
“Come dice anche Vittorino Andreoli, uno dei più grandi psichiatri italiani, la più grande e alta forma di sofferenza che l’uomo può sperimentare è la malattia mentale. Questo credo sia un po’ il cuore The Town of Light, dove si va a toccare proprio l’istituzione manicomiale e la protagonista rappresenta in qualche modo tutte le persone ricoverate all’interno. In Martha is Dead invece troviamo una storia più personale, dove la protagonista, con le sue caratteristiche, non rappresenta altro che sé stessa, ma c’è sempre questa tematica comune di disagio nei confronti di se stessi e della realtà che si ha intorno“.
Tu come definiresti Martha is Dead? Sotto che genere lo faresti rientrare?
“Io come categoria sceglierei quella del dramma, anche se quando vai a presentare i videogiochi a qualche concorso non ci sono delle e vere e proprie categorie per i giochi drammatici. Questo è stranissimo no? Soprattutto se pensiamo che nell’ambito cinematografico il dramma è un genere dal successo assicurato al botteghino. Con i giochi purtroppo c’è sempre molta confusione. Non sai mai se li devi catalogare per il tipo di gameplay, per il tipo di contenuti oppure addirittura per il tipo di periferiche attraverso cui si possono fruire. Quest’ultimo è il caso ad esempio dei giochi in realtà virtuale, dove troviamo come categoria VR, ma il ventaglio dei generi a cui si presta è molto più ampio. Anche su Steam, dove sono i giocatori che spesso creano la categoria, non emerge mai la parola dramma, che invece è una delle parole fondamentali anche della vita“.
The Town of Light e l’esperienza acquisita
Il successo ottenuto da The Town of Light quanto ha aiutato il successivo sviluppo di Martha is Dead?
“Prima di tentare con The Town of Light, il nostro team, LKA, non aveva nessuna esperienza nei videogiochi. Le uniche esperienze erano attraverso scenografie per eventi in ambito teatrale. Successivamente le cose sono cambiate, infatti portare un gioco alla release ti dà tantissimo, perché a quel punto prendi coscienza di ciò di cui sei realmente capace e quindi, come delle spugne, abbiamo imparato tantissimo. Ad esempio, in The Town of Light, non abbiamo proprio osato o provato nel fare certe cose, per paura di non essere magari all’altezza. Anche per questo possiamo trovare una differenza di gameplay nei due giochi, dove nel primo prevalgono meccaniche molto più elementari”.
“La differenza che c’è tra The Town of Light e Martha is Dead penso dia proprio l’idea del percorso evolutivo che ha fatto il team, ed è grazie a tutta l’esperienza e a tutti gli errori fatti, che siamo riusciti a farne un po’ meno. Sostanziale differenza la troviamo anche nei motori di gioco, infatti troviamo il passaggio da Unity ad Unreal Engine, che sono due ambienti di servizio molto diversi“.
Puoi raccontarci di più riguardo questo passaggio e queste differenze di sviluppo tra i due titoli?
“Io voglio sempre spezzare una lancia a favore di Epic come azienda perché a volte penso che i giocatori non si rendano conto fino in fondo di cosa stia facendo Epic per i videogiochi. In questi anni sta dimostrando una particolare attenzione anche per i piccoli gruppi, infatti da noi son venuti tecnici, ingegneri, “evangelizzatori”, di Epic a trovarci in sede e aiutarci, non solo in termini economici, ma anche con degli strumenti. Nei prossimi anni sono certo che inizieremo a vedere i risultati di tutto questo, inizieremo a vedere personaggi di livello superiore, paragonabili a quelli di distribuzioni AAA, anche nei giochi indipendenti“.
“Tutto questo è meraviglioso soprattutto, lo capirete, per chi vuole raccontare delle storie attraverso le piccole espressioni dei protagonisti, ma sai che purtroppo, spesso e volentieri, ti devi confrontare con con i limiti tecnici oltre che di budget. Per fare un esempio, quando abbiamo scansionato l’attrice che interpreta Giulia, abbiamo creato e modificato il modello con MetaHuman, dove puoi inquadrare a 10 cm e vedere magari l’impercettibile peluria del viso. Non vediamo l’ora di vederlo in azione, nel breve futuro, in vestiti, pettinature, ottenendo un’altissima qualità anche nel mercato indipendente“.
La censura all’interno del videogioco e in Martha is Dead
In una sequenza avanzata del gioco, vediamo Giulia recarsi nel cimitero dove è esposto il cadavere di Martha. Qui, per controllare se la sorella sia incinta, la sventra con delle forbici da sarta, tirando fuori il feto e mettendoglielo sul petto. Quanto è stato difficile pensare ad una scena come questa e renderla addirittura interattiva per gli utenti Xbox e Pc? Stesso discorso possiamo applicarlo anche alla scena in cui rimuove il volto della sorella e lo indossa.
“Inizio sottolineando come io possa capire il polverone nato da scene come questa, ma una considerazione molto semplice che voglio fare riguarda il fatto che entrambe le azioni avvengono su un cadavere. Ciò dovrebbe segnare una differenza notevole rispetto ad azioni applicate a persone viventi (anche se parliamo sempre di entità poligonali, non creature reali). Un lato sicuramente positivo è che il discorso della censura, riguardo il nostro ultimo gioco, ci ha fornito sicuramente tanta visibilità. Esistono tematiche difficili, io non faccio parte di quelle persone che condannano e basta. Sono contrario alla censura, ma credo che bisogni lavorare molto nell’educare, nel dare gli strumenti giusti, da genitori e da giocatori in generale, per capire cos’è adatto e cosa non lo è”.
“Non mi pento, anzi, sono contento di aver inserito queste scene, che inserirei sicuramente di nuovo se tornassi indietro. Vi confesso che ce n’erano anche un altro paio, ma che non sono state inserite per mancanza di tempo. Ormai siamo assuefatti dalle scene di violenza in quanto ne siamo circondati in tutti i media. Ma quand’è che la violenza ci colpisce veramente? In una storia ben strutturata anche uno schiaffo può far male, mentre in un’altra storia, strutturata diversamente, quello stesso schiaffo passa come se non ci avesse mai toccati”.
“Oggi, purtroppo, si vede molto di peggio che tagliare un po’ la faccia. Se per due scene, che io tutto sommato considero ordinarie nel panorama horror-splatter, mi si chiede come ho fatto a pensare ad una cosa così terribile, significa che queste scene hanno colpito e che sono arrivate, come lo schiaffo citato prima, direttamente al giocatore. Un altro momento che, confesso, mi crea un po’ d’orgoglio è sicuramente il finale di The Town Light, dove in tanti hanno espresso il loro sentirsi male, ed è bene che sia così, era quello il suo scopo, doveva far male, dovevi arrivare ad empatizzare e capire la storia“.
La versione PlayStation è stata modificata in più punti per delle scene molto crude. Pensi che non vivere a pieno quelle scene possa in qualche modo influire negativamente sull’esperienza complessiva?
“Onestamente penso di sì. Apparentemente può sembrare una differenza minima, ma non credo che lo sia. Credo che in termini di immersione questo sia molto importante, in quanto aumenta l’impatto della scena sul giocatore. Vederla semplicemente non può colpirti come quando sei tu a compierla. Se giochi nei panni di questa persona, nei panni della protagonista, e segui la sua storia, sei costretto a compiere quell’azione. Questo perché per lei, in quel momento, è l’unica scelta, l’unica possibilità, che possiede“.
“Siamo coscienti del fatto che tutti non apprezzino il nostro gioco, ma il nostro obiettivo è avere un pubblico di riferimento. Con quest’ultimo intendiamo anche un pubblico che, per una volta, non si sentirà vittima del solito politicaly correct. Questo, d’altronde, avviene anche nel cinema indipendente, dove troviamo scene davvero molto forti che vengono comunque accettate. Se pensiamo a determinati film degli anni ’70 e ’80 o a pellicole come A Serbian Film, ci rendiamo conto di come rimangano opere di nicchia ed è giusto che sia così. Il pubblico che apprezza questi contenuti non è malato di mente, ma vuole fare dei viaggi nell’inconscio perché è questo che fondamentalmente sperimenta”.
“Nei sogni stessi di qualunque persona a volte vengono prodotte delle cose che potremmo definire terrificanti, no? Esiste un lato oscuro in ciascuno di noi e bisogna imparare a conoscerlo anche attraverso la percezione e la sensibilità degli altri. Questo è anche un modo per imparare ad accettarlo o evitarlo. L’importante, come sempre, è essere pronti“.
Il gioco possiede anche un avviso nella schermata iniziale, quindi possiamo dire che andiamo a vivere quell’avventura in modo totalmente cosciente?
“Purtroppo gli avvisi non vengono sempre letti o, se avviene, spesso non viene posta la giusta attenzione. Bisognerebbe capire piano piano qual è il sistema corretto per collocare opere come questa, in modo tale che non siano potenzialmente dannose per nessuno. Sono cosciente del fatto che esistano anche persone dall’alta sensibilità che possono rimanere scioccate o addirittura avere dei traumi a riguardo“.
“Forse non è il caso specifico di Martha is Dead, ma penso che si debba avere sempre le idee abbastanza chiare prima di fruire un videogioco. Bisogna essere sempre coscienti dell’esperienza che si andrà a vivere. Gli avvisi vengono messi anche per tutelarsi e questo non è un lavoro che può fare lo sviluppatore, ma le organizzazioni di settore. In Italia, ad esempio, dovrebbe essere la Comunità Europea ad organizzarsi, così come hanno fatto per i vari rating che dimostrano sicuramente che qualcosa si è mosso da parte loro“.
Questo forte impatto può essere causa anche delle nuove tecnologie che rendono il tutto molto più realistico?
“Sicuramente, basta pensare che 15 anni fa la grafica dei giochi era tale per cui la differenza con l’immagine reale era talmente grande che bastava quella ad alleviare tante paure. Poteva essere turbante lo stesso, per l’amor di Dio, però oggi si inizia ad avere delle opere talmente realistiche che bisogna tenere conto, ecco, del potenziale impatto“.
Il punto forte di quelle scene, secondo me, è il loro essere inaspettate per il giocatore. Non arrivavano in modo graduale, ma erano dei forti impatti in situazioni di apparente tranquillità. Raggiungevano il loro scopo nel destabilizzare il giocatore. Personalmente ho amato quelle scene, e credo che se ci fosse stato un eccessivo avviso avremmo perso il gusto, la sorpresa, di quei momenti.
“Questo è proprio quello che volevamo raggiungere. Nella narrativa, in generale, funziona così. In alcuni momenti vuoi che ci sia totalmente un salto nel buio, un avvenimento inatteso, questi sono gli strumenti con cui si raccontano le storie. Credo che sia anche materia vostra, per certi versi, quella di fare un confronto e di sensibilizzare piano piano i lettori, i giocatori, e trovare gli strumenti per proteggere loro e contemporaneamente non privarli di fruire esperienze come questa“.
Martha is Dead e il suo finale aperto
Parliamo del finale di Martha is Dead. Qual è il vero significato che la storia vuole trasmetterci? È solo un’allegoria? O è tutto reale, ma “deformato” dalla condizione mentale della protagonista?
“Questa è una delle domande che mi viene posta più frequentemente. Io ho sicuramente la mia visione delle cose, però credo che Martha is Dead vada interpretato in modo personale e soggettivo. Continuo a non dare la mia posizione riguardo la storia perché, come quella di tutti noi, è una posizione dubbia. Quando scrivi, spesso lo fai seguendo la scia di un istinto, senza razionalizzare. È una scelta che si fa nel momento che si ha il bisogno di raccontare qualcosa che sia il più “esperienziale” possibile, piuttosto che razionale”.
“Mi sono ritrovato anche in una situazione molto particolare. Un giocatore, in una recensione su Steam, aveva dato una sua interpretazione di un aspetto del gioco riguardo il rapporto tra il padre e la ragazza. Posso dire che io ho capito questo rapporto attraverso questa spiegazione. Ho capito perché avevo introdotto quelle cose, quando inizialmente erano state introdotte solo d’istinto. Non avevo razionalizzato il processo mentale per cui io le avessi inserite. Questo invece lo ha fatto un’altra persona, ponendosi un po’ nel ruolo di psicanalista. Infatti lo psicanalista ti aiuta a scoprire delle cose di cui anche tu ne sei all’oscuro”.
“Non ci possono essere, nel caso del nostro finale, delle interpretazioni diverse che vanno in conflitto con quello che volevamo raccontare. La storia è vista dagli occhi di Martha/Giulia, io non ho raccontato la storia attraverso gli occhi della madre ad esempio. Se lo avessi fatto mi sarei dovuto forzare ad avere una visione chiara e lineare di quello che era successo, perdendo spontaneità nel raccontare la versione della protagonista“.
Era questa la vostra idea? Portare avanti la storia come se foste voi la protagonista?
“La mia idea era sempre quella di portare avanti un qualcosa che fosse confuso anche per me, cercando di raccontare una storia vista da una persona, per l’appunto, confusa e che non ha le idee chiare. Credo che sia molto bello che una storia possa essere vissuta come meglio si crede, senza una posizione giusta o una posizione sbagliata. La storia è raccontata attraverso una persona profondamente disturbata e quindi chi lo sa quale era la verità? Almeno che non si faccia il seguito (ironizza Luca), Martha is Back, dove magari spieghiamo e vediamo tutto quanto“.
Quindi possiamo dire che lasciare il finale aperto era proprio una volontà vostra?
“Esatto, il fatto di lasciare il finale aperto, senza spiegare niente, era proprio ciò che volevamo. Il giocatore non deve sapere effettivamente cosa è successo. Questo infatti non lo sa nessuno, cosa è successo alla madre, cosa è successo al resto della cittadina. Ci sono un’infinità di possibilità, si era anche nel pieno della guerra. Lei non lo saprà mai e questo è uno dei grandi drammi, una delle grandi difficoltà. Nessuno saprà spiegare qual era la verità e come sono andate le cose e quindi tu avrai sempre questo buco nero nella tua vita“.
Il giocatore perciò si sente esattamente come la protagonista una volta concluso il gioco.
“Sì, finisci la storia con la sua stessa consapevolezza, o per meglio dire, con i suoi stessi dubbi“.
Italian Game Awards
Agli Italian Game Awards siete stati candidati per il Best Italian Game e avete vinto anche il Best Innovation Game. Oltre a congratularci con voi per il grande traguardo, vorremo chiederti come ti fa sentire tutto questo dopo tanti anni di duro lavoro?
“Fa sicuramente molto piacere, soprattutto se consideriamo che si tratta di un riconoscimento tutto italiano. Siamo orgogliosi di essere italiani e coscienti che possa fare molto bene importare un po’ d’italianità positiva nel mondo. Il Best Innovation Game forse non non era proprio il titolo che ci aspettavamo, infatti non si sposa perfettamente con Martha is Dead. Quest’ultimo non è di certo molto innovativo, ma apprezziamo moltissimo il fatto che ci sia stata la volontà di premiare il nostro lavoro. È bello vedere che questo tipo di lavoro viene apprezzato anche qui in Italia. Spesso si dice che nessuno è profeta a casa propria, ma in questo caso, fortunatamente, possiamo dire il contrario. Abbiamo avuto anche altri premi prestigiosi, ma questo italiano ha un sapore decisamente particolare“.
Un piccolo studio è meglio di un grande studio?
Il vostro è ancora uno studio piuttosto piccolo, perlomeno numericamente, ma ha già una propria identità, una propria impronta. La gente inizia a parlare di voi, a conoscervi. E penso che, sapere che dopo qualche secondo la gente riesca a dire “questo secondo me è un lavoro loro”, possa essere motivo di orgoglio. In ogni caso, dove pensi che possiate spingervi in futuro?
“L’essere uno studio piccolo, la considero attualmente una fortuna. L’obiettivo è certamente quello di crescere, ma non tanto da un punto di vista numerico, piuttosto crescere qualitativamente. Perché dico numerico? Perché noi abbiamo un modo di lavorare un po’ particolare, molto orizzontale. Questo modo di lavorare funziona fintanto che il numero di persone sono ragionevoli. Ognuno contribuisce, ognuno è partecipe di tutto il processo di sviluppo, tutti si devono interessare di tutto. Quando si è in troppi questo è naturalmente difficile”.
“L’obiettivo di crescita è anche quello di avere un maggior budget per lo sviluppo. Avere la possibilità di lavorare anche su parti di progetto più complesse senza dover sacrificare nulla. Ma diventare grandi, ripeto, vuol dire cambiare modo di lavoro ed essere un po’ condannati a fare anche peer-to-peer; nelle fasi di produzione meno intense, tipo l’inizio della produzione, non riesci a giustificare 20 o 30 persone in azienda e pagarle. Mi piacerebbe quindi rimanere con le dimensioni attuali, ma poterci permettere più sfizi creativi“.
Il rapporto con il publisher? Com’è?
“Il publishing, su The Town of Light, venne fatto da noi, ma è dura, si diventa matti. Oltre ad arrivare alla release dovevamo seguire anche i rapporti con la stampa, le immagini promozionali e molto altro. Al momento invece abbiamo un ottimo rapporto con Wired Productions, il publisher di Martha is Dead, con cui continueremo a lavorare essendoci trovati molto bene. Hanno dimostrato un grande rispetto per il lavoro, senza imposizioni, modifiche di gioco o interventi nell’aspetto creativo. Anche loro sono un’azienda molto piccola e la speranza è di riuscire insieme a crescere“.
Vedresti mai un vostro titolo come best seller?
“In realtà non vorrei mai vedere un nostro titolo diventare un best seller, lo vorrei vedere per questione finanziaria, quello mi farebbe piacere, però se devo pensare al significato più ampio del termine, non ne sarei molto entusiasta. Preferisco pensare a creare un prodotto di grande qualità, come dicevo, dedicato a un certo pubblico e mi piacerebbe sicuramente che la nostra nicchia possa ingrandirsi molto di più rispetto a quella che è oggi, ma continuando a fare prodotti particolari e coraggiosi“.
Un consiglio per tutti i ragazzi che hanno come sogno nel cassetto quello di lavorare nell’ambito dello sviluppo dei videogiochi in Italia
Cosa consiglia ad un giovane ragazzo che si vuole avvicinare all’industria videoludica in Italia?
“È sicuramente dura, ma non dura nel senso dell’essere difficile avvicinarsi industria videoludica, anzi, credo che il futuro offrirà più lavoro e richieste, essendo un mercato in continua espansione. Quindi guardare all’industria del videogioco, anche in Italia, non è sbagliato, naturalmente i compensi sono più bassi, abbiamo questo problema rispetto ad altri paesi. Ma è dura perché c’è sempre una situazione colpita da questo “spartiacque””.
“Se sei interessato a guadagnare allora va via dall’Italia, perché non potresti trovare a pieno quello che cerchi. Infatti lavorare in una grande azienda equivale anche a guadagnare bene. Se vai a lavorare in aziende grandi hai più possibilità di carriera e puoi arrivare a vedere anche degli stipendi molto importanti. Se invece lo scopo è quello di partecipare a produzioni un po’ più piccole, dove magari hai la bellissima possibilità di sviluppare un gioco vedendo tutte le fasi dello sviluppo, senza essere rilegato ad un’unica e specifica fase, allora credo che l’Italia sia un’ottima possibilità“.
Cosa consigli riguardo la formazione?
“Cosa consigliare riguardo la formazione purtroppo non è facile. Se uno vuole fare formazione allora che si informi bene, perché di fregature purtroppo ce ne sono fin troppe. Consiglio fondamentale è informarsi su chi sono i docenti, cosa fanno nella vita. Perché se insegna soltanto, però non ha contatti col mondo del lavoro, allora meglio evitare. Il contatto deve essere il più diretto possibile”.
“Inoltre è importante lavorare accettando che non ci sarà un percorso come quello di un medico o di un ingegnere o di un architetto. In questi lavori infatti, parti spesso da un’alta posizione semplicemente con il titolo di studi. Infine consiglio un tirocinio lungo, perché ad esempio noi abbiamo avuto tirocinanti che sono stati sei mesi o un anno e poi sono sempre qui da noi, perché quando entri in un’azienda diventi indispensabile, mentre fare un tirocinio di un mese non dà loro il tempo di conoscerti, di inserirti“.
Speriamo che questa intervista, al game director e sceneggiatore Luca Dalcò, possa aver soddisfatto tutte le vostre curiosità sul team LKA e Martha is Dead. Come sempre, non dimenticate di continuare a seguire Nasce, Cresce, Respawna per rimanere sempre aggiornati su tutte le notizie provenienti dal mondo del gaming.
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