di Redazione NCI
Qualche volta, nello sport, succedono dei piccoli miracoli. Delle apparizioni, delle comparse destinate a cambiare per sempre la storia della propria disciplina. Muhammad Alì, al secolo Cassius Clay Jr, non si è limitato a questo. Il pugile, nato a Louisville nel 1942, ha raggiunto lo status di icona della cultura nera nel mondo, andando ben oltre la fama del ring.
Oggi Muhammad Alì avrebbe compiuto 80 anni, e anche se il Parkinson ce l’ha strappato via nel 2016, il mondo non ha smesso e mai smetterà di ricordare la forza e il coraggio di questo campione. Noi di NCI vogliamo onorarne la memoria ripercorrendo le tappe più importanti della sua carriera.
Gli inizi e la vittoria a Roma
Cassius Clay inizia la sua carriera dilettantistica nel suo Kentucky, raggiungendo ottimi risultati: 100 vittorie e 5 sconfitte. Il culmine fu la medaglia d’oro per i pesi mediomassimi vinta nel 1960 alle Olimpiadi di Roma. Questo primo traguardo gli diede fama e notorietà, ma non abbastanza da sconfiggere il suo più grande nemico: il razzismo. Gettò infatti la sua medaglia d’oro nel fiume Ohio dopo che un ristoratore non lo aveva voluto servire in quanto nero.
Il professionismo e il titolo di campione del mondo
Il fenomeno di Louisville entrò nel professionismo nello stesso anno delle Olimpiadi, il 1960. Divenne ben presto conosciuto in tutto il mondo per il suo modo di combattere e per la sua sfrontatezza. Clay amava lavorare di gambe più che di braccia, colpire l’avversario con pugni veloci e precisi ed evitare di finire sotto la tempesta di colpi del rivale. Lo stesso pugile dirà successivamente: “Io volavo come una farfalla e colpivo come un ape”, un modo di definire sia la sua boxe che il suo stile di vita, serio ma scanzonato allo stesso tempo. Egli divenne anche uno dei primi grandi utilizzatori del trash talking, termine inglese per definire quelle frasi provocatorie volte a sminuire o far arrabbiare l’avversario.
Cassius Clay decise di sfidare nel 1964 il campione del mondo Sonny Liston, un pugile più grosso, forte e esperto di lui. Clay iniziò una vera e propria propaganda volta a deconcentrare Liston, con dichiarazioni in pubblico e manifesti che ritraevano il campione del mondo come un orso. Il pugile di Louisville arrivava comunque da super sfavorito all’incontro, nessuno credeva nella sua vittoria e molti lo vedevano fuori già dopo i primi round.
Clay, nonostante i pronostici e la paura, si presentò sul ring il 25 febbraio del ’64 e grazie alla sua velocità riuscì non solo a evitare la maggior parte dei colpi del rivale, ma anche a affondare serie precise di pugni al volto e al corpo di Liston. Alla fine della sesta ripresa, Liston gettò la spugna: Cassius Clay era diventato campione del mondo. Il giorno dopo la vittoria il neo campione aderì alla Nation of Islam, si convertì e cambiò il nome in Muhammad Alì.
Anche qui, all’apice della sua grandezza, il razzismo colpì. Ali fu rifiutato da varie associazioni di boxe per la sua scelta e fu addirittura spodestato dal titolo di campione del mondo WBA quando fu costretto a stare 6 mesi fuori per un’operazione all’ernia.
Al suo rientro sul ring, Ali riaffrontò di nuovo Liston, sconfiggendolo per K.O. tecnico dopo averlo colpito al primo round con un colpo invisibile alle telecamere, il famoso phantom punch, o pugno fantasma. Fu poi organizzato un incontro col nuovo detentore del titolo Ernie Terrel, che fu completamente soggiogato da Ali per 15 round. Al rifiuto di Terrel di chiamarlo col suo nuovo nome, Ali rispose con una serie violentissima di colpi, continuando a chiedere al suo rivale “Come mi chiamo?” mentre lo tempestava di colpi.
Il Vietnam, la prigione e il ritorno
Muhammad Ali, all’apice della sua carriera, fu però ancora una volta colpito da una società che non lo rispecchiava. Chiamato nel 1967 per andare a combattere in Vietnam, egli rifiutò commentando che “nessun Vietcong lo aveva mai chiamato negro”. Il rifiuto della leva gli valse 5 anni di prigione e la squalifica dalle federazioni USA. Dopo una lunga assenza, tornò sul ring con una sentenza del tribunale nel 1970. Ormai aveva perso il titolo di campione del mondo, ma era ancora imbattuto. Nacque così la più grande rivalità della sua carriera, quella con Joe Frazier, nuovo detentore della cintura. Nel luglio del ’71 i due si sfidarono in quello che fu definito Fight of the century (Incontro del secolo), che vide però Frazier vincitore.
La rinascita di Ali avvenne nel 1975, quando affrontò il neo campione del mondo George Foreman, che aveva sconfitto Frazier. Foreman e Ali si scontrarono a Kinshasa, nello Zaire. L’incontro, chiamato Rumble in the Jungle, fu vinto da Alì che usò la strana tecnica di incassare grazie alle corde i colpi dell’avversario. Foreman lo colpì duro ma alla fine fu Alì ad avere la meglio e a ritornare campione del mondo WBA.
Combatté poi una seconda e una terza volta con Frazier, vincendo entrambi gli incontri. La sfida più importante fu la terza, sempre nel ’75 a Manila, dove Ali difese il titolo WBA.
Il declino e il suo lascito
Gli ultimi anni di Muhammad Ali furono deludenti, probabilmente per l’insorgere del Parkinson che lo uccise nel 2016. La sua eredita va oltre al ring e ai suoi risultati. Ali viene ricordato come il più grande pugile di sempre ma anche come uno dei più grandi attivisti a battersi per i diritti dei neri.
Egli rifiutava una società in cui i neri, anche se di successo, dovevano piegarsi ai bianchi. Provocava e insultava gli avversari, bianchi o neri che fossero, perché per lui non faceva differenza. Fu odiato da molte organizzazioni razziste ma amato da un popolo che si rivedeva nei suoi ganci. E proprio per questo motivo Muhammad Ali è una leggenda non solo dello sport, ma della storia americana.
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di Alessandro Colepio
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