Una serie incentrata così tanto sulla psicologia dei propri personaggi deve sviluppare il protagonista in maniera soddisfacente. Per fortuna, “BoJack Horseman” ci riesce. Buona parte della serie è concentrata su di lui e lo spettatore segue l’uomo-cavallo in ogni sua azione e le conseguenze che ne derivano. Già dalla prima stagione, è chiaro che BoJack soffre di una grave forma di depressione provocata da tantissimi fattori: la sua terribile infanzia, la mancanza di uno scopo nella vita, i sensi di colpa provocati dall’aver pugnalato alle spalle il suo migliore amico Herb, la paura di essere ricordato solamente come il “cavallo di Horsin’ Around“.
Quest’ultimo punto è particolarmente importante nel contesto della serie. Ogni tentativo di BoJack di ritornare rilevante si è rivelato un fallimento. Il fattore sorprendente e contraddittorio è che, in moltissimi casi, BoJack stesso rovini ogni sua possibilità di successo. Nell’episodio “Il BoJack Horseman Show” (S3E2) vediamo come l’uomo-cavallo abbia compromesso la sua prima serie post “Horsin’ Around”, dopo aver convinto il regista che la prima bozza del copione non era sufficientemente buona. Durante la seconda stagione BoJack inizia ad odiare “Secretariat” , film che ha sempre voluto realizzare e che ora sta venendo rovinato dalla produzione, e decide di scappare nel New Mexico, arrivando quasi a far fallire la pellicola.
Questa tendenza all’autodistruzione si riversa molto spesso nelle persone a lui vicine: Todd rovina la sua rock opera dopo che BoJack gli consiglia un videogioco che crea dipendenza (“Tra Zoë e Zelda“, S1E4); Sarah Lynn muore di overdose per colpa dell’eroina che BoJack le ha dato (“È troppo, amico!”, S3E11); il terapeuta del cavallo, dottor Champ, ricade nell’alcolismo quando beve della vodka per colpa del protagonista (“Un po’ fuori posto, tutto qui“, S6E5). Anche senza volerlo, BoJack rende la vita delle persone a lui vicine peggiore. Una delle cause di questo comportamento è la sua depressione, affrontata dalla serie con costante maturità.
Molte altre serie tv hanno cercato di parlare di depressione o altre malattie mentali, molto spesso fallendo miseramente. L’esempio più lampante è “Tredici“, un altro prodotto distribuito da Netflix. Quasi nessun personaggio di questa serie è scritto in maniera realistica: Hannah Baker (Katherine Langford) viene usata per discutere la depressione; Bryce Walker (Justin Prentice) e Montgomery De La Cruz (Timothy Granaderos) sono esempi di mascolinità tossica; Justin Foley (Brandon Flynn) soffre di dipendenza da droghe e, verso la fine della serie, si ammalerà di AIDS; Tyler Down (Devin Druid) è l’emarginato sociale, continuamente preso di mira dai suoi compagni di scuola… Gli sceneggiatori di “Tredici” usano i personaggi della serie solo per parlare di vari tipi di malattie mentali o dipendenze. Nessuno di loro ha spazio per crescere come individuo.
Questo fenomeno non si verifica in “BoJack Horseman“. I personaggi non sono degli stereotipi senza spessore, si evolvono in maniera impercettibile ma costante. Uno dei migliori esempi di quest’evoluzione è rappresentato da Diane. Nelle prime stagioni, la ragazza interiorizza la propria tristezza e i propri traumi, senza far nulla per migliorare la sua situazione. Lei considera le cose terribili che le sono successe come “traumi positivi”: grazie a questi, l’autobiografia che sta tentando di scrivere risulterà interessante da leggere. Alla fine, dopo aver iniziato a prendere degli antidepressivi, passerà alla stesura di racconti per ragazzine. Diane, grazie all’aiuto del suo nuovo fidanzato Guy, riesce a superare la fissazione con la propria tristezza (“Un trauma positivo“, S6E10).
Concludere il paragone tra queste due serie Netflix senza vedere come hanno trattato la depressione dei rispettivi protagonisti sarebbe un crimine. E, ovviamente, “BoJack Horseman” è superiore anche in questo ambito. La malattia dell’uomo-cavallo è centrale in tantissimi episodi della serie: in “Stupido pezzo di m…a” (S4E6), tra le migliori puntate del prodotto, vediamo come ogni scelta di BoJack venga influenzata dalla depressione. Non riesce nemmeno a stare con sua sorella Hollyhock senza cadere nella spirale dell’autocommiserazione.
La cosa incredibile è che, al contrario di “Tredici“, questa serie non “glorifica” la malattia del proprio protagonista. Nel prodotto di Brian Yorkey, Hannah Baker deciderà di togliersi la vita per tredici motivi, ognuno rappresentato da una cassetta destinata ad una persona. Il problema nasce quando si considera che alcune di queste motivazioni sono abbastanza banali. L’esempio più lampante è senza dubbio la cassetta di Zach, colpevole di aver rubato dei bigliettini destinati alla ragazza.
In più, per quanto sia ovviamente sbagliato colpevolizzare la vittima in casi di bullismo o abusi, scegliere di togliersi la vita non deve essere mai un’opzione. La sequenza in cui Hannah si suicida non è tonalmente corretta. Invece di mostrare la ragazza nel punto più oscuro della sua esistenza, sembra quasi che la serie voglia rappresentare la sua morte come una sorta di “liberazione”. Dopo un breve periodo, Netflix ha rimosso questa sequenza dall’episodio. Risulta incredibile anche una statistica: nell’aprile del 2017, mese di uscita della prima stagione di “Tredici“, i casi di morte causata da suicidio sarebbero aumentati del 28.9% rispetto al mese precedente. Questa potrebbe essere una semplice coincidenza, anche se i familiari di alcune vittime la pensano diversamente (fonte: National Institute of Mental Health).
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