Cinema & Serie TV

“Women Talking”, la recensione: una dolorosa scelta di libertà

Arriva al cinema “Women Talking – Il diritto di scegliere“, forse il meno chiacchierato tra i dieci candidati all’Oscar come Miglior film, nonché vincitore della statuetta per la Miglior sceneggiatura non originale. Diretto da Sarah Polley, impressiona per prima cosa il suo strepitoso cast al femminile: Rooney Mara, Jessie Buckley, Claire Foy e Frances McDormand, a cui si aggiunge l’outsider Ben Whishaw. Con un impianto dialogico e quasi teatrale, la pellicola lavora su interrogativi e suggestioni fortemente attuali, ispirandosi al contempo ad una storia realmente accaduta…

La premessa di “Women Talking”

Una donna si sveglia nel suo letto con il corpo tremante e ricoperto di lividi e sangue sulle sue gambe; lo spettro del terrore si dipinge sul suo volto. È il volto di una comunità rurale, tra le lande incontaminate e anonime delle campagne statunitensi, che viene sconvolta da un terribile segreto; per anni gli uomini del villaggio hanno drogato e abusato delle proprie donne, lasciando loro credere di essere possedute dal demonio o aggredite da spiriti malefici.

Ma la tremenda verità viene infine a galla dopo aver mietuto un’ultima vittima: una bambina di appena quattro anni. Cosa fare davanti a tale verità? Come reagire di fronte ad un mondo che ha svelato l’oscurità del proprio male? È il dubbio che attanaglia le donne della comunità, desiderose, anzi, intimamente bisognose di un cambiamento.

Una rappresentazione studiata a fondo

Sono queste le premesse laceranti con cui si apre “Women Talking – Il diritto di scegliere”, tratto dall’omonimo romanzo di Miriam Toews e diretto da Sarah Polley. La particolare ambientazione è quella di un insediamento di mennoniti, la più popolata tra le chiese anabattiste del mondo (si stima che ad oggi vi siano più di un milione di mennoniti sparsi tra i vari Continenti).

La fede mennonita predica uno stile di vita quasi ascetico, raccolto e isolato dal resto della società progredita; si tratta di un sistema autarchico in cui il ruolo della donna è relegato all’ignoranza e alla sottomissione, all’analfabetismo e alla sola procreazione. Attraverso un simile setting, la regista e sceneggiatrice costruisce un sistema di rappresentazione a scatole cinesi, presentando una società-villaggio dentro la società-mondo (la nostra), al suo interno ulteriormente divisa tra comunità femminile e la contrapposta comunità maschile.

 

“Women Talking”: un film costruito sui personaggi

Una contrapposizione, una dualità, che serpeggia costantemente nel corso del film; approfittando della momentanea assenza degli uomini dal villaggio, le donne scelgono di riunirsi in un fienile per votare sul da farsi. Le opzioni sono tre: perdonare, combattere o partire. Sono le ultime due ad ottenere la maggioranza dei voti, così da lasciare un’ultima e dolorosa scelta. Otto donne, tanto diverse per età e carattere quanto legate nel profondo, intavoleranno a questo punto un dialogo per capire quale sia la decisione più giusta.

La prima è la severa Janz (Frances McDormand), spinta dai dettami del credo ad accettare il suo ruolo di sottomessa nella comunità; non a caso uscirà ben presto di scena, lasciando il posto alle istanze delle altre. Ci sono infatti quelle dell’agguerrita Salome (Claire Foy), determinata a vendicarsi degli abusi con la forza; quelle di Mariche (Jessie Buckley), convinta che l’unica soluzione possibile sia il perdono; e infine, i motivi concilianti di Ona (Rooney Mara), che cerca di mediare tra le altre donne.

Argomentare il dolore, liberare il proprio pensiero

Tra le altre, è proprio Ona a emergere per carattere, la cui ragionevolezza suggerisce un mite confronto. Su sua iniziativa verrà quindi chiamato August (Ben Whishaw), gentile maestro di scuola, affinché possa redigere su loro dettame delle nuove regole per una società finalmente libera dalla disparità. Emerge chiaramente come, attraverso una forma di dialogo inclusivo, lo spazio in cui questi personaggi agiscono si configura al pari di una piccola utopia.

Questa utopia è basata sul confronto paritario tra le parti, in cui la significazione (e quindi il valore politico della parola) emerge in senso dialettico quale risultato di una partecipazione comunitaria non prevaricatrice. Ma anche come “palcoscenico”, come teatro in cui agiscono i caratteri che determinano i personaggi e dove vengono messe in scena le spinte della loro autodeterminazione. In questo luogo, le donne del film trovano per la prima volta uno spazio in cui coltivare liberamente il proprio pensiero, arricchito dall’interazione con le altre.

 

L’intento critico di “Women Talking”

L’impianto teatrale della messinscena appare chiaro fin dalle prime battute; i caratteri dei diversi personaggi vengono lasciati affiorare pian piano, tramite dialoghi che mostrano lineamenti sempre più netti per ogni personaggio. Il risultato è quasi brechtiano, che spinge lo spettatore a mettere una distanza critica tra sé e ciò che vede: ad un osservatore attento, o meglio un ascoltatore, tra i numerosi dialoghi non sfuggirà l’eco di discorsi extrafilmici che si estendono alla società contemporanea e ai tanti dibattiti odierni sui diritti delle donne.

Women Talking” trasfigura tali discorsi in una rappresentazione a metà tra il dramma (post) borghese e il racconto biblico, quasi a voler creare uno specchio parabolico in cui ciascuno possa leggere in controluce i significati reali. Le risonanze evangeliche agiscono maggiormente nei momenti in cui la verbosità del film tace, affidandosi alla meravigliosa colonna sonora di Hildur Guðnadóttir; sono queste le sequenze che catalizzano la componente emotiva del film, in cui si sedimenta il peso e il significato delle parole.

Conclusioni

Con “Women Talking – Il diritto di scegliere” Sarah Polley costruisce un saggio in forma di narrazione, un dialogo platonico che si erge ad esemplare prodotto dell’epoca MeToo. Sorretta dalle intense prove del suo cast femminile, la scrittura del film risulta estremamente tagliente e precisa, e non scade mai nella banalità o nella ridondanza nonostante la sua natura essenzialmente retorica. La forza dell’opera emerge con tutto il suo significato provocatore, spingendo di continuo lo spettatore ad allinearsi ai numerosi interrogativi posti dalla narrazione; così facendo, la regista si pone l’obbiettivo di alimentare una coscienza critica, al contempo proiettando la pellicola verso un barlume di speranza: quella delle sue protagoniste, in cammino verso un futuro (utopistico?) di autodeterminazione.

Pro

  • Scrittura densa e provocatrice, dialoghi ben costruiti che pongono domande critiche allo spettatore;
  • Cast strepitoso che dona spessore a ciascun personaggio;
  • La colonna sonora catalizza in modo potente l’emotività del film.

Contro

  • Impianto sicuramente verboso, a tratti in bilico con l’essere retorico.

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Lorenzo Procopio

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