La maggior parte di noi vede i calciatori come degli idoli intoccabili, forti sia sul campo che fuori. “I soldi non fanno la felicità”; un detto saggio che però sembra non valere quando si parla dei giocatori. Indubbiamente il denaro risolve molti problemi, ma non tutti. E soprattutto, per ottenere i soldi bisogna, molto spesso, fare grossi sacrifici. E questo è stato il caso di Thierry Henry, uno dei calciatori più grandi della storia che si è confidato a cuore aperto in una puntata del podcast Diary of a CEO.
La prima volta che mi ha preso in braccio, mio padre ha detto: ‘Questo bambino sarà un grande calciatore‘.
Una citazione che sembra quasi simpatica, se decontestualizzata. Qualunque padre appassionato di calcio spera che il proprio figlio possa diventare un buon giocatore. Quello di Henry, però, ha preso la cosa molto sul serio.
Mio padre ha preso il controllo totale del mio corpo ed è stato difficile.
Thierry è diventato calciatore, uno dei migliori di sempre, anche e soprattutto sotto la pressione asfissiante del padre, che gli ha limitato e non di poco l’esistenza.
Ho sempre cercato la sua approvazione. Tanto che fino a non molto tempo fa, tutta la mia vita era dedicata a compiacere gli altri. Quando ero piccolo, non ho ricevuto molto amore e affetto.
Nonostante Thierry fosse evidentemente un predestinato nel calcio, il padre Antoine gli ha imposto di dare sempre di più. Questo ha fatto vivere il giovane Henry nella costante preoccupazione di non essere abbastanza.
Avevo 15 anni e a quell’età si vede se qualcuno è bravo o no. Abbiamo vinto 6-0 e ho segnato sei gol, conoscevo le emozioni di mio padre e potevo capire se era felice o meno. Siamo arrivati in macchina e c’era silenzio. Mi chiedevo se dovessi parlare o no. Eravamo così. Lui mi ha detto: “Sei felice?” Avrei dovuto rispondere? “Sì”. “Sì, ma non dovresti esserlo perché hai mancato quel gol, mancato quel cross, qualunque cosa”. Siamo arrivati a casa di mia mamma, camminavo così a testa bassa e lei mi ha chiesto: “Hai perso?” Spesso accadeva questo.
Il COVID-19 e il conseguente lockdown hanno portato molti di noi a un’attività di introspezione. Fermarsi in un mondo che normalmente non si ferma è stato importante, e per tanti la “quarantena” si è rivelata un momento chiave per conoscere meglio se stessi. Anche Thierry Henry non è stato da meno.
C’è stato il COVID e mi sono chiesto: ‘Perché corri, cosa stai facendo?’. Ero isolato e non poter vedere i miei figli per un anno è stata dura. Non ho nemmeno bisogno di spiegarlo. Mi doveva succedere qualcosa del genere per comprendere la vulnerabilità, l’empatia, il pianto. […] Piangevo quasi ogni giorno senza motivo, arrivavano le lacrime. Non so perché, ma forse stavano aspettando da molto tempo.
Il campione francese, isolato a Montréal e lontano dalla famiglia, ha sfruttato il lockdown per sfogare le emozioni celate durante la sua lunga carriera.
Ti è stato detto fin da quando eri giovane, sia a casa che al lavoro: ‘Non essere quel ragazzo, non mostrare che sei vulnerabile. Se piangi, cosa penseranno?’. Stavo piangendo ma tecnicamente era il giovane Thierry a piangere. Piangeva per tutto ciò che non aveva ottenuto.
Thierry Henry, una volta appesi gli scarpini al chiodo e tirate le somme, ha scoperto il volto del demone che lo ha perseguitato per tutta la sua avventura nel mondo del calcio.
Durante la mia carriera devo essere stato in depressione. Lo sapevo? No. Ho fatto qualcosa al riguardo? Ovviamente no. Ma mi ero adattato in un certo modo. Ho mentito per molto tempo perché la società non era pronta ad ascoltare quello che avevo da dire.
Nella vita si cerca spesso di far vedere la parte migliore di sé agli altri. La paura di risultare vulnerabili ci porta a nascondere sotto il tappeto ogni genere di problema, senza trovare soluzioni. Un circolo vizioso che può portare a una sorta di autodistruzione. Ebbene, le parole di Thierry Henry sono importantissime per sensibilizzare sulla tematica della salute mentale, della quale non si parla mai abbastanza. Il lavoro e la vita di tutti i giorni possono “soffocare” facilmente le persone, in maniera subdola e di difficile soluzione. Essere produttivi sul lavoro e dare il massimo è importante, però lo è altrettanto prendersi cura di sé anche coltivando altre passioni che non rendano la vita una noiosa routine fatta di impegni lavorativi.
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