Dopo il debutto al Toronto Film Festival e la conquista degli Stati Uniti, il grido di guerra di “The Woman King” giunge fragoroso anche in Italia. Un film che, tra guerriere di un passato storico, promette di ribaltare il canone della narrazione occidentale. Andiamo ad analizzarlo insieme.
Regno del Dahomey, inizio XIX secolo. Un gruppo di una tribù di uomini intona canti di guerra, accampato al fuoco nella notte. Le loro armi promettono sangue per ogni nemico. Ma le tenebre della foresta africana nascondono forze temibili e sottovalutate: sono le Agojie, brigata di donne guerriere che brutalmente mette fuori gioco i nemici. Con una spietata prova di forza si apre “The Woman King”, capitanata dal volto di Viola Davis nei panni di Nanisca, comandante delle Agojie.
La squadra di guerriere, novelle Amazzoni africane, svolge il ruolo di comparto d’elite del regno, guardia speciale del re Ghezo (John Boyega). Le Agojie sono l’unica difesa per un popolo chiuso nella morsa di due fuochi: da una parte l’Impero Oyo, di cui il Dahomey è tributario; dall’altro gli avamposti europei sulla costa, che forzano le tribù a tenersi in piedi grazie alla tratta degli schiavi. Un equilibrio precario che la risoluta Nanisca è determinata a spezzare.
Nonostante una tale premessa possa far pensare ad una storia di tribali supereroine, le radici su cui affonda il racconto di “The Woman King” sono essenzialmente storiche. Il Dahomey è stato realmente un antico regno africano, fondato intorno al 1600 e corrispondente all’attuale stato del Benin. Per quanto forse poco conosciuto, questo regno nel corso dei secoli svolse un ruolo fondamentale per gli europei. Esso rappresentava infatti uno dei porti maggiori nel commercio degli schiavi, alla punta di uno dei tre vertici della cosiddetta “tratta Atlantica” (ossia quella di schiavi comprati e rivenduti nelle Americhe).
Se quindi la storia di “The Woman King” attua un ribaltamento di genere rispetto al ruolo tradizionale del maschile (e degli uomini bianchi) nel racconto guerresco, è nella sua scelta di aderire al realismo che risiede il vero “anticonformismo” del film. La pellicola presta evidentemente il fianco all’immaginario supereroistico (impossibile non notare un richiamo a “Black Panther”). E non è forse un caso che Gina Prince-Bythewood, in veste di regista e sceneggiatrice, sia la stessa di “The Old Guard”. Ma per quanto “The Woman King” strizzi consapevolmente l’occhio al genere, la sua reale forza va individuata proprio nelle sue radici storiche, alla ricerca di un eroismo ancorato alle origini africane di gran parte del cast.
Quello legato all’identità, inoltre, non è l’unico genere con cui “The Woman King” gioca. Nel corso della sua durata, infatti, il film mette in mostra più volte tratti riconducibili a diversi generi narrativi. Se l’incipit, come abbiamo visto, assume le vesti di un chiaro (super)eroismo, cambiando poi le fattezze tra l’epica, lo storico e il bellico, d’altra parte è l’intreccio relativo a Nawi (Thuso Mbedu) che offre più spunti di riflessione. La ragazza è una giovane recluta desiderosa di diventare una Agojie, la cui testa calda la porta a scontrarsi più volte con Nanisca e l’insegnante Izogie (Lashana Lynch). Proprio le vicende che la vedono protagonista arricchiscono il ventaglio narrativo del film, che in alcuni momenti diventa vero e proprio racconto di formazione.
Accanto agli elementi e ai richiami ai generi moderni, “The Woman King” fa largo uso di motivi tradizionali. Ciò è evidente nell’impianto teatrale della narrazione, che lascia spazio ed enfasi alle emozioni, così come nella presenza di topoi risalenti alla tragedia greca (su tutti quello dell’esposizione del neonato e del riconoscimento tramite segno). Appare ora evidente, quindi, la strategia decostruttivista messa in atto dal film: appropriarsi degli stilemi del canone narrativo Occidentale, smontandoli come tasselli e rielaborandoli “trasformati di segni”, ossia sotto il punto di vista post-coloniale.
“The Woman King” porta sul campo di battaglia un dramma travestito d’azione, che tra le sue prove di forza aggiunge una storia di libertà e di indipendenza, di crescita e di autodeterminazione. Con il loro grido di battaglia, le Agojie svolgono un’azione di decostruzione contro il canone narrativo occidentale, rielaborandone i tratti in ottica post-coloniale. Nonostante alcuni passaggi a rilento e la mancanza di un antagonista di spessore (se non sul lato metaforico e morale), “The Woman King” può cantare vittoria anche grazie alle eccezionali prove di Viola Davis e delle sue guerriere.
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