di Riccardo Cavalli
Dal 17 marzo è disponibile su Apple TV+ l’ultima stagione completa di “Servant”. Lo show creato da Tony Basgallop nel 2019 si conclude dopo 4 stagioni. Nel cast ritroviamo Toby Kebbell, Lauren Ambrose, Rupert Grint e Nell Tiger Free; tra i comprimari spiccano invece Boris McGiver, Denny Dillon e Barbara Kingsley. Senza dimenticare il ritorno di Tony Revolori, l’iconico Flash Thompson della trilogia MCU di Spider-Man.
L’intero progetto è supervisionato da M. Night Shyamalan in veste di showrunner. Il regista di “Bussano alla porta” (qui trovate la nostra recensione) ha lavorato anche alla sceneggiatura e regia insieme alla sorella Ishana Night Shyamalan. Nonostante i pochi episodi a disposizione per rispondere a innumerevoli domande, la quarta stagione non ha deluso le aspettative. Giunti alla fine, possiamo dirlo senza problemi; “Servant” è una delle punte di diamante di Apple TV+, nonché un gioiello da scoprire e riscoprire.
“Servant”: la discesa nell’oscurità dei Turner
Prima di addentrarci nella recensione, è necessario ripercorrere i fatti avvenuti nelle stagioni precedenti. Le vicende di “Servant” ruotano attorno ai coniugi Dorothy (Lauren Ambrose) e Sean Turner (Toby Kebbell). Dopo la morte del figlio Jericho, Sean acquista una bambola reborn che la madre tratta come se nulla fosse accaduto; le cure del “bambino” vengono affidate alla misteriosa tata Leanne Grayson (Nell Tiger Free). La prima stagione prende il via dal classico Shyamalan Twist, ossia quel colpo di scena in grado di spiazzare tanto i protagonisti quanto gli spettatori. Scopriamo infatti che l’arrivo di Leanne ha causato la “trasformazione” della bambola in un bambino vero, identico nelle fattezze a Jericho!
Nel corso degli episodi Julian (il fratello di Dorothy interpretato da Rupert Grint) e Sean indagano sul passato della tata. I due vengono a conoscenza di una setta religiosa (la Chiesa dei Santi Minori) a cui la ragazza è in qualche modo legata. Nonostante gli sforzi di Leanne, la sua devozione al culto la costringe ad abbandonare i Turner. La sua partenza coincide però con la scomparsa di Jericho.
Nella seconda stagione, Dorothy mette in atto un piano per convincere Leanne a restituirle il bambino. Dopo uno scontro con alcuni membri del culto religioso, la tata riporta finalmente indietro Jericho e dichiara guerra alla Chiesa dei Santi Minori.
La terza stagione è sicuramente la più debole dal punto di vista narrativo, poiché priva di un’espansione chiara della mitologia della serie. Il focus è puntato sulla battaglia tra la setta e Leanne, sempre più mentalmente instabile. Fino ad arrivare al cliffhanger in cui Dorothy, consapevole del pericolo, tenta di scappare con Jericho. È qui che la donna rimane coinvolta in un grave “incidente”.
Il tempo dei giochi è finito
La quarta stagione riparte esattamente qualche mese dopo gli eventi dello sconvolgente finale di cui vi abbiamo parlato qui sopra. La guerra di Leanne con la setta si intensifica, minacciando Spruce Street e non solo; una doppia sfida attende quindi la famiglia Turner. Da una parte l’imprevedibilità di Leanne; dall’altra il complicato risveglio di Dorothy. Mentre il mondo dentro e fuori va in pezzi, il mosaico generale inizia a comporsi: “chi è Leanne Grayson e chi è il bambino nella loro casa?”.
Fin dal primo episodio è evidente come la serie si sia evoluta verso una dimensione horror sempre più ambiziosa. Ora che la parabola dei Turner sta giungendo al termine, l’orrore diventa reale e tangibile; i nemici di Leanne, prima solo “percepiti”, cominciano a manifestarsi concretamente. Ne deriva un’atmosfera di terrore e claustrofobia che culmina in una fantastica sequenza ambientata tutta all’interno di un’automobile.
Il senso di ansia e soffocamento che permea l’intera stagione è sostenuto dall’ambientazione per eccellenza in questo genere di opere, la casa. In alcuni frangenti l’edificio sembra quasi rimpicciolirsi, con le fondamenta della cantina che cominciano a sgretolarsi. È come se la verità cercasse disperatamente di uscire per rivelare il marcio da cui i Turner per troppo tempo hanno cercato di fuggire. Proprio per questi motivi stupiscono ancor di più i frangenti in cui la casa sembra invece essere enorme; scopriamo nuove stanze e passaggi segreti mai visti prima, a conferma di quanto la messa in scena sia impressionante.
L’autorialità di Shyamalan al servizio del piccolo schermo
Nonostante la ricchezza di simbolismi, lo show sorprende per l’altissimo livello produttivo. Niente è lasciato al caso. Ogni inquadratura è studiata nei minimi dettagli: dal posizionamento e l’angolazione della macchina da presa alla fotografia. Ebbene sì, anche la scelta dei colori nasconde un significato più ampio; soprattutto i toni scuri, specchio dell’oscurità che incombe sulla famiglia Turner.
Ad impreziosire un livello tecnico già di per sé invidiabile entra in gioco l’impronta autoriale di M. Night Shyamalan. Il regista di origine indiana porta sul piccolo schermo lo stile già sperimentato in “The Visit” e “Old”. Da un lato ritroviamo infatti la classica eleganza formale mai fine a sé stessa; dall’altro è interessante notare il suo nuovo approccio grottesco al genere, in bilico tra horror e thriller, in grado di creare un’atmosfera surreale che tiene lo spettatore incollato allo schermo.
Così come in “Old”, anche in “Servant” la ricerca dell’emozione pura, essenza stessa dell’intrattenimento, spesso vince sulla verosimiglianza. Il motivo è semplice, e si identifica in una parola: suspense. Il motore degli eventi è quasi sempre una situazione drammatica forte che viene nutrita e spinta al limite per poi essere dipanata nel momento di massima intensità. Con questi stratagemmi, frutto dell’ispirazione di Alfred Hitchcock, la tensione sussiste per tutta la durata degli episodi. Di conseguenza lo sviluppo spesso compassato degli eventi passa in secondo piano.
“Servant”: quando lo stile va a discapito del ritmo
Per quanto impeccabile a livello stilistico, “Servant” gode degli stessi difetti di molte produzioni firmate Shyamalan. Spesso infatti si ha la sensazione che i personaggi girino a vuoto in attesa di un twist che scompigli le carte. In altre parole, la dilatazione dei tempi risulta fin troppo eccessiva; ne risente il ritmo, ma non la fruibilità. L’atmosfera è così coinvolgente da spazzare via ogni dubbio.
Il rischio maggiore era che la storia finisse in un nulla di fatto. Fortunatamente, non è questo il caso. Pur con i suoi difetti, il racconto è coerente e organico. È vero che in molti momenti la narrazione sembra arrestarsi per far spazio agli “spiegoni”, ma ci sono anche tanti non detti e sottintesi; a conferma di come gli autori avessero il pieno controllo della loro “creatura”.
Nonostante gli alti e bassi, ciò che rimane è la qualità eccelsa nella scrittura dei dialoghi. Non si ha mai la percezione di star assistendo a qualcosa di “finto” o “artefatto”. Per una serie che presenta situazioni ai limiti del grottesco, non può esserci complimento migliore.
Le performance attoriali di un cast sorprendente
Un plauso va fatto senza dubbio all’interpretazione di Lauren Ambrose. La gamma di emozioni che traspare dal suo volto lascia senza fiato in più di un’occasione. Anche perché il personaggio è chiamato in questa stagione ad un’importante presa di coscienza, dal momento che la verità è in procinto di venire a galla. Lo stress post parto ha spinto Dorothy a commettere un terribile errore e, non appena ne sarà a conoscenza, tutto il mondo le crollerà addosso in un secondo.
Ad interpretare il fratello di Dorothy è Rupert Grint, il vero MVP della serie; l’ombra di “Harry Potter” è ormai un lontano ricordo. Con una performance in perfetto equilibrio tra dark humor e dramma, l’attore britannico porta su schermo un personaggio sfaccettato, cinico, vittima del rimorso e del senso di colpa.
Nonostante la bravura di tutti gli attori, a rubare la scena è Leanne Grayson. La giovane Nell Tiger Free incarna alla perfezione l’ossessione del personaggio nei confronti di Dorothy. La sua storia è sicuramente la più ardita e misteriosa della serie; ed è quella che più di tutte instilla nello spettatore il dubbio sull’effettiva natura delle vicende, rendendo sempre più labile il confine tra bene e male, tra scienza e fede.
“Servant”: considerazioni finali
Come vi abbiamo raccontato nella nostra recensione, “Servant” è una delle serie più affascinanti, fresche e originali degli ultimi anni. Il punto di forza dello show messo in piedi da Shyamalan sta proprio nella capacità di fare spettacolo per un grande pubblico pur mantenendo un valore artistico notevole. Ovviamente, non è tutto oro quel che luccica, anzi; sul fronte narrativo qualche piccolo inciampo va segnalato. Nulla a cui non si può però facilmente soprassedere. Anche perché il finale, seppur amaro, è appagante e soddisfacente.
Ancora una volta “Servant” ci dimostra che è possibile fare prodotti di genere raccontando al tempo stesso temi delicati e importanti. Pensiamo ad esempio al fenomeno sempre più diffuso dei bambini dimenticati in auto e morti per ipotermia. Sembra una banalità, e proprio per questo fa paura. Forse la serie è un appello di Shyamalan ai giovani cineasti. Se fosse così, avrebbe ragione lui. La cosa più spaventosa al mondo spesso è la più semplice.
Pro
- La qualità nella scrittura di dialoghi e personaggi;
- L’impronta e lo sguardo autoriale di Shyamalan, efficace anche sul piccolo schermo;
- La ricchezza di simbolismi e significati nascosti;
- La durata mai eccessiva degli episodi;
- L’atmosfera claustrofobica e la deriva horror dello show…
Contro
- …mitigano solo in parte il “problema” del ritmo a tratti un po’ compassato;
- Alcune trame secondarie passano inevitabilmente in secondo piano.
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