fbpx Perché amiamo tanto Bloodborne? Non è solo il fascino della paura
Gaming

Perché amiamo tanto Bloodborne? Non è solo il fascino della paura

di Nasce Cresce Ignora

Condividi con chi vuoi

Sono passati ormai più di 6 anni dall’uscita di Bloodborne, cult del 2015 sfornato da From Software. Il titolo è stato il primo vero discostamento dal sentiero tracciato fino a quel momento per i souls, la base per lo sviluppo successivo di Sekiro e, probabilmente, anche di Elden Ring, oltre che per i miglioramenti per il gameplay di Dark Souls 3. A distanza di tanti anni, Bloodborne rimane ancora nei cuori di milioni di giocatori, ammaliati dal fascino oscuro partorito dalla mente di Hidetaka Miyazaki. I fedelissimi ne invocano a gran voce la versione rimasterizzata o, perché no, un seguito. Ma perché?

Sarà per il consueto modo di narrare la Lore di Miyazaki, come sempre appena accennata e tutta da scoprire o, addirittura, intuire? O sarà quella delicata forma d’arte mixata alla perfezione con l’intrattenimento videoludico? O c’è qualcosa d’altro dietro, qualcosa di più profondo?

Bloodborne, non un semplice “gioco”

Innanzitutto l’ambientazione. Bloodborne vive e pulsa in un meraviglioso scenario gotico che muta con il proseguire del nostro sogno (o meglio incubo). La notte, dalle ultime luci del tramonto fino ai primi raggi dell’alba, ammanta un mondo in rovina eppure affascinante e quasi delicato nella sua empietà. Una landa flagellata da una piaga malefica e malsana, che ammorba piano piano anche noi, assuefandoci con le sue nefandezze e… con la sua innegabile bellezza.

Le creature mostruose che affollano il mondo di gioco, non intaccano la maestosità degli scorci, l’armonia delle architetture, l’epicità della Luna sullo sfondo o delle guglie che sembrano giudicarci. Tutto è incastrato alla perfezione, al punto che il giocatore finisce per amare ed apprezzare anche l’orrida ed inquietante Amygdala che penzola dai pinnacoli della cattedrale. Si finisce per trovarsi in un fantastico tunnel a cielo aperto dritto verso la follia, una visita guidata con un solo scopo: farci ammattire il prima possibile.

Bloodborne

Il mistero, il buio, la paura, regnano sovrani ovunque, eppure l’amaro sapore del terrore viene trasformato sapientemente dalla mano di Miyazaki in dolce ambrosia di cui il giocatore non può più fare a meno. Ogni vicolo, ogni angolo oscuro, nasconde un incubo differente, un orrido scorcio sulla follia che regna sovrana. Eppure, rapiti dall’orrore, non riusciamo a distogliere lo sguardo, a correre via, al sicuro. In Bloodborne non c’è salvezza o redenzione, non c’è spazio per l’eroismo: per uscire dal tuo stesso incubo, devi sporcarti le mani.

Come i grandi scrittori dell’orrore, come farebbero Stephen King o Edgar Allan Poe, Bloodborne tiene incollate le “vittime” alla propria pena in una perfetta rappresentazione della Sindrome di Stoccolma. Il dubbio, l’incertezza e l’ignoranza sono da sempre croce e delizia del genere umano. La zavorra che ci rende ciechi, ma anche la spinta a rischiare, ad andare avanti e toccare con mano. Ed è proprio questo che sfrutta l’opera di From Software, spingendoci, seppur spaventati e titubanti, a saziarci del sangue delle prossima belva per appagare la nostra sete di adrenalina. Come i cacciatori protagonisti del gioco, non riusciamo a farne a meno. Dobbiamo aprire la porta che dà sull’Abisso e, inevitabilmente, l’Abisso finirà anche dentro di noi.

“Un’altra sbirciatina. Soltanto un altro po’. Guardo e poi scappo”. E poi alla fine non si scappa più, non si scappa mai, inchiodati dalla morbosa passione per l’ignoto, per la scoperta di quanto può essere effettivamente profondo il pozzo del terrore. Bloodborne non è soltanto un videogioco, è l’esatta rappresentazione delle nostre più profonde paure. E forse è proprio questo che ci impedisce di staccarcene, di voltare pagina. Proprio questo che ci fa chiedere a gran voce un sequel o una rivisitazione del primo “amore”. Solo con la paura capiamo la reale misura delle cose, il nostro effettivo valore. Tutti abbiamo bisogno di approvazione, di una muta intesa che ci dia soddisfazione. E quale soddisfazione migliore di abbattere e trucidare i nostri incubi, le nostre paure più inconfessabili, addirittura l’inadeguatezza che ci tiene svegli la notte?

Bloodborne

Un viaggio dentro la nostra oscurità

Di incubi e deliri ce n’è per tutti i gusti: ogni fobia, anche la più piccola e nascosta, qui fa capolino, pronta a scavarvi l’animo come un tarlo. Corvi demoniaci, ragni umanoidi, licantropi, sanguisughe, belve, buio puro, feti e uomini: a ognuno la propria controparte orrorifica, spesso grottesca e abominevole. Ma a differenza del Molliccio di Harry Potter, gli incubi, anche quando estremizzati al punto da risultare quasi “ridicoli”, qui assumono toni sempre più cupi e alienanti. Non vi troverete mai a ridere di un nemico che vi viene incontro, tutt’altro. Forse anche perché più andrete avanti nel vostro viaggio delirante, più capirete quanto ci sia poco da ridere, con qualsiasi avversario vi si pari di fronte. Ridere non vi farà svegliare, non vi salverà. Combattere, forse, invece si.

Miyazaki ha creato ad arte un inquietante ricettacolo di proiezioni mentali folli e distorte, adatte ad ogni forma di “masochismo”. Ha attinto a piene mani fino al fondo del pozzo della paura e dell’incubo e ne ha ricavato un’opera eccezionale, introspettiva, matura e adattabile a qualsiasi utente. E, clamorosamente, Bloodborne riesce a fare tutto questo mantenendo una componente visiva e narrativa ai limiti dell’estatico, specie considerata l’era videoludica in cui uscì. La cura per i dettagli è maniacale, quasi inquietante nella sua certosina perfezione.

Bloodborne

Da qualsiasi angolazione lo si guardi, con qualsiasi preconcetto di partenza lo si giochi, Bloodborne rimane un capolavoro proprio per questo. Un “gioco”, anche se una definizione simile è fin troppo semplicistica, che setaccia il nostro peggio per cercare il nostro meglio: la volontà di non arrendersi, di essere più forti del terrore, di andare fino in fondo all’incubo e scoprire quanto è bello risvegliarsi. Di poter scegliere se il sacrificio è il viaggio o la destinazione, il mezzo o il fine. Ci fa scoprire quella fiammella che ci rende in fin dei conti davvero umani: la tenacia.

E in fondo diciamocelo: anche dopo tanto tempo, reimmergersi nel sogno delirante e demoniaco, insozzarsi con il sangue nero dell’incubo, rimane ancora un’esperienza impareggiabile. Farci rapire dal fascino del nero per vedere quanto in realtà siamo grigi, non bianchi. Ecco perché tutti coloro che hanno toccato Il Sogno del Cacciatore, sperano di tornarci un giorno.

Per altri articoli simili, continuate a seguire NCR!

di Pietro Magnani

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Condividi con chi vuoi