di Alessandro Colepio
È inutile girarci intorno: il numero 10 è, per acclamazione, la figura più influente del mondo del calcio. La maglia più pesante che cade sempre sulle spalle del giocatore più incisivo, quello più talentuoso, colui dal quale dipendono i ritmi e le armonie del collettivo. Non c’è mai stata, nella storia di questo sport, una squadra capace di diventare grande senza passare per i piedi e le idee di un fenomenale rifinitore. O almeno, fino ad oggi.
Sì, perché nell’epoca in cui il calcio ha assunto più che mai una dimensione globalizzata, ecco l’arrivo del paradosso: il numero 10 è scomparso, per lo meno nella forma in cui tutti siamo abituati a vederlo. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un lento ma inesorabile snaturamento del ruolo del fantasista, sempre più difficile da incastrare nell’economia di gioco moderna. E pian piano, anno dopo anno, le maglie numero 10 dei top club europei sono finite addosso a giocatori che col 10 sembrano davvero avere poco a che fare.
Ma cosa è successo ai grandi rifinitori di una volta? Si può davvero dire che non ci sono più giocatori del genere nel panorama calcistico mondiale e, soprattutto, europeo? La risposta non è né si né no, e proprio per questo c’è bisogno di un’analisi a tutto tondo dell’evoluzione tattica del calcio moderno.
I grandi fantasisti di un tempo
Partiamo dal principio. La maglia numero 10 diventa grande grazie a Pelé, che la riceve quasi per caso col Brasile e ci incanta il mondo fra gli anni ’60 e ’70. O’Rei trasforma quello che prima era solo un numero in un vero e proprio simbolo, aprendo la strada alla nuova generazione di calciatori. Poco più a sud, in Argentina, sta nascendo una grandissima scuola di fantasisti che raggiunge il suo culmine con l’avvento di Diego Armando Maradona.
Il fuoriclasse di Lanùs diventa uno degli sportivi più influenti del mondo e, soprattutto, riesce in ciò che era mancato persino ad un grande come Pelé: si impone in Europa. Diego è il prodotto perfetto di una scuola di pensiero che ci ha regalato alcuni dei migliori giocatori della storia, fra cui Platini, Zico, Hagi, Savicevic, Baggio.
Calciatori accomunati innanzitutto da un talento fuori dal normale, e poi da un’attitudine dentro il campo così particolare da sembrare quasi insofferente. I grandi numeri 10 non si mischiano coi comuni giocatori, escono fuori dagli schemi e non rientrano nei disegni tattici difensivi. Al fantasista classico non può essere chiesto di correre all’indietro, di marcare a uomo o di muoversi nel campo. Il suo genio piega il tempo e lo spazio, apre una dimensione parallela in cui tutto ruota intorno all’idea e all’istinto del fuoriclasse.
Il numero 10 tradizionale non ha la capacità realizzativa del bomber, il dinamismo dell’ala o lo spunto del centrocampista. In un certo senso raccoglie e reinterpreta tutte queste qualità, mescolandole e mostrandole solo al momento opportuno. Maradona, ad esempio, sintetizzava perfettamente quiete e tempesta: camminava in mezzo al campo per larghi tratti della gara, poi d’improvviso si accendeva e…apriti cielo. Platini, invece, è stato un grande armonizzatore offensivo, amante segreto dell’area di rigore, e proprio per questo aveva bisogno di una folta schiera di scudieri pronti a sporcarsi di sangue e fango per lasciare immacolato il suo smoking.
Calma, classe, eleganza e stravaganza sono le parole d’ordine del vero numero 10. Essere un diez significa vivere la vita, dentro e fuori dal campo, in una maniera tanto aggraziata quanto malinconica. Purtroppo, saranno proprio questi i presupposti che porteranno al declino dei grandi fantasisti, tanto belli quanto dannati.
Cosa è successo al numero 10?
Arriviamo così ai primi anni del 2000. Il calcio inizia a trasformarsi, soprattutto negli aspetti della cura del corpo e dell’allenamento. La palestra riveste sempre più un ruolo fondamentale e lo sviluppo fisico dei calciatori moderni ne è la prova. I difensori sono più grossi e veloci, i centrocampisti più resistenti alla fatica, gli attaccanti più esplosivi e slanciati.
In un mondo di colossi e robot, il numero 10 prova a ricavarsi il suo spazio, ma lo strapotere fisico alla fine ha la meglio. Le squadre non possono più permettersi di difendere in 10 contro 11 e iniziano a rivestire i propri fuoriclasse di compiti tattici, come ad esempio la marcatura del mediano avversario.
Dal Sudamerica arrivano in Europa diversi esponenti della vecchia scuola, come Riquelme e D’Alessandro, ma nel nerboruto calcio europeo non trovano la loro dimensione e tornano in patria. Sotto le luci del grande calcio loro sembrano poeti maledetti, malinconici e incompresi, incapaci di ambientarsi in un mondo che ormai ha capito di poter fare a meno di loro.
Nel frattempo nasce una nuova generazione di trequartisti, non più fantasisti veri, che incarnano i valori del nuovo football. Le strade che si delineano per i numeri 10 sono, generalmente, quattro.
La prima è quella della seconda punta. Il rifinitore gioca vicino al numero 9, avanzando la sua posizione e diventando, di fatto, un attaccante. Totti e Del Piero, ma anche Dybala e Griezmann sono tutti ottimi esempi di questa nuova scuola calcistica. Giocatori sempre più dinamici, capaci sì di illuminare i compagni, ma anche di svariare sul fronte offensivo e di attaccare la profondità quando serve. In genere si tratta di calciatori dotati di grandi doti realizzative, abili sotto porta tanto quanto nel fraseggio.
La seconda strada è quella dell’esterno d’attacco. Fra gli esempi più illustri troviamo Ronaldinho, Neymar, Hazard, Di Maria e Bernardo Silva. Giocatori dal talento cristallino che, per poter sopravvivere nel calcio moderno, hanno dovuto spostare sulla fascia il loro habitat naturale. Lì sono sicuramente meno impegnati dal punto di vista tattico e realizzativo, ma restringono notevolmente il range delle loro giocate. Questa scelta tattica ha dato il via alla florida epoca degli esterni a piede invertito, che invece di puntare l’uomo e crossare come le ali vecchio stampo preferiscono rientrare dento il campo per combinare coi compagni o concludere verso la porta.
La terza, possibile evoluzione è quella della mezz’ala. Tantissimi fantasisti di natura hanno dovuto abbassare la propri posizione, diventando di fatti dei centrocampisti con grandi compiti creativi. Zidane, Seedorf, Kakà, De Bruyne e Modric sono solo alcuni dei fuoriclasse stanziatisi sulla linea di centrocampo, capaci di combinare un estro straordinario con grandi capacità fisiche e tattiche. La mezz’ala di fantasia non gioca stabilmente sulla trequarti, piuttosto ci arriva muovendosi con la squadra o dopo aver spezzato di forza il raddoppio avversario. Spesso, ma non sempre, si tratta di calciatori dotati di mezzi atletici notevoli, vista anche la quantità di energie che questo ruolo richiede.
L’ultima strada a disposizione degli allenatori è quella di schierare il 10 come un falso nueve: in questa posizione, il fantasista parte da prima punta ma durante lo sviluppo della manovra si abbassa a fraseggiare coi centrocampisti, lasciando spazi che gli esterni possono attaccare alle sue spalle. Questa idea, resa grande da Guardiola e Leo Messi, è risultata di difficile applicazione in altri sistemi: gli unici ad aver rivestito propriamente quel ruolo, oltre all’argentino, sono stati Dries Mertens nel Napoli di Sarri ed (in parte) Roberto Firmino nel Liverpool di Klopp.
Negli ultimi anni abbiamo avuto qualche sporadica apparizione di rifinitori old school, ma si è trattato di giocatori dalla carriera breve e discontinua. Basti pensare ad James Rodriguez o a Mesut Özil: indubbiamente talentuosi, ma troppo poco dinamici per calarsi in uno dei contesti precedentemente descritti. Finché hanno potuto si sono adattati al ruolo di mezz’ala, ma alla fine hanno dovuto cedere il passo a calciatori meno geniali e più concreti.
Alla luce di questi ragionamenti, appare chiaro come il numero 10 non sia scomparso da questo sport, ma abbia solo “mascherato” la sua natura, quasi a volersi proteggere da un mondo in cui sembra sempre più difficile essere accettati. Si sta mettendo in disparte, ha abbandonato il completo e si è vestito di abiti umili, scegliendo di confondersi per preservare la sua essenza più pura.
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