fbpx Manchester United, la storia della maglia numero 7
Sport

Manchester United, la storia della maglia numero 7

di Alessandro Colepio

Condividi con chi vuoi

Il Manchester United di Erik Ten Hag è una delle squadre più interessanti dell’intero panorama europeo. La squadra inglese ha puntato sul tecnico ex Ajax per riaprire un ciclo vincente degno della gloriosa storia dei Red Devils. Una storia legata indissolubilmente ai grandi campioni passati per Old Trafford.

Proprio per questo motivo, il club ha deciso di investire fortemente sul mercato, comprando giocatori giovani ma già funzionali al progetto di Ten Hag. Si spiega così l’arrivo di Mason Mount, che per 60 milioni di euro ha lasciato il Chelsea per trasferirsi a Manchester. Laa promessa è quella di essere la pedina perfetta per completare il trio di centrocampo, al fianco di Bruno Fernandes e Casemiro.

A sottolineare l’importanza di Mount nel nuovo corso dello United ci ha pensato direttamente la società, decidendo di affidare al 24enne inglese la maglia numero 7. Quest’ultima, dalle parti di Old Trafford, ha un valore quasi mistico. Per capire meglio il simbolismo dietro questa scelta bisogna tornare agli anni ’60, quando Manchester era ai piedi di un piccolo ragazzo nordirlandese.

Old Trafford (@Shutterstock)

Il primo vero “7” del Manchester United

George Best, venerato come un santo dai tifosi dei Red Devils, è stato il primo a dare rilevanza al numero cucito dietro la maglietta. Nato a Belfast da una famiglia di umili origini nel 1946, esordì giovanissimo con lo United. Regalò al club di Manchester gli anni migliori della sua carriera.

In maglia rossa si consacrò come uno dei migliori fantasisti al mondo, vincendo anche una Champions League e un Pallone d’Oro nel 1968. Tanto talentuoso in campo quanto esuberante fuori, la sua vita sportiva venne segnata dai vizi e dalle dipendenze. Donne, alcol e gioco d’azzardo furono gli unici difensori capaci di marcare il maghetto di Belfast, costringendolo ad una prematura discesa e ad un perentorio ritiro, accompagnandolo fino alla tomba.

La sua fama di bello e dannato, pur rovinando la sua vita professionale, contribuì però ad accrescere il mito di Best e, di conseguenza, della maglia numero 7. Dopo il suo addio allo United, infatti, tutti i suoi successori avrebbero dovuto fare i conti con l’eredità pesante lasciata dal nordirlandese. Se volete saperne di più sulla sua figura, ne abbiamo parlato approfonditamente in un altro articolo.

George Best

George Best (@Shutterstock)

Un re dalla Francia per i Red Devils

George Best lasciò il Manchester United nel 1974 e per quasi 20 anni non c’è stato nessuno capace di reggere il peso di quella maglia. Tutto cambiò nel 1992, quando il club inglese acquistò dal Leeds un attaccante francese famoso tanto per le doti tecniche quanto per il carattere fumantino.

Il suo nome era Eric Cantona, e nei 6 anni passati ad Old Trafford diventò un vero e proprio simbolo per i tifosi, che iniziarono a chiamarlo King Eric, il re di Manchester. Anche se non si assomigliavano a livello di caratteristiche, lui e Best condividevano quell’aura da bad boy che tanto mancava al popolo dei Red Devils. Consegnargli la numero 7 sembrò più una formalità che altro, e con quella maglia sulle spalle Cantona regalò momenti indimenticabili sia con la palla ai piedi che senza.

Molti di voi ricorderanno infatti quando il francese, dopo essere stato pesantemente insultato da un supporter avversario, decise di reagire e gli sferrò un calcio volante in pieno petto, beccandosi una squalifica di ben 9 mesi. Nel 1997 decise di ritirarsi, all’età di soli 30 anni, e ancora oggi è uno dei personaggi più ambigui del panorama calcistico mondiale. Con il Manchester United, Cantona vinse ben 5 campionati e fu eletto una volta giocatore dell’anno in Premier League.

Cantona (@Shutterstock)

La prima rockstar del mondo del calcio

L’addio di Cantona coincise con un ricambio generazionale voluto fortemente dallo storico allenatore del club, Sir Alex Ferguson. Negli anni precedenti, lo United aveva infatti iniziato a schierare regolarmente alcuni talenti provenienti dal settore giovanile, tutti calciatori di grande prospettiva.

Fra questi c’era anche un ragazzo, biondino e dal piede destro fatato, che dopo un anno di prestito decise di tornare a Manchester per diventare un campione. Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando di David Beckham, un’icona globale capace di andare ben oltre l’etichetta di “misero” calciatore.

Beckham iniziò a giocare con regolarità nel 1995, ma è solo nel 1997 che, con l’addio di Cantona, l’inglese prese la maglia numero 7. In breve tempo diventò uno degli esterni più forti del mondo, famoso tanto per le sue punizioni quanto per la sua vita fuori dal campo. Becks diventò una vera e propria macchina da soldi per i giornali, che quando non potevano parlare delle sue magie, parlavano dei sui interessi amorosi o pubblicavano i suoi servizi fotografici. E questo sistema non finì neanche col suo matrimonio, dato che si sposò con Victoria Adams, cantante delle Spice Girls famosa in tutto il mondo, formando la coppia più chiacchierata e invidiata degli ultimi 20 anni.

Con la maglia dello United vinse moltissimi trofei, tra cui l’indimenticabile Champions League del 1999. Nel 2003 decise di lasciare la squadra a causa di problemi con Ferguson, ma al suo posto arrivò un altro calciatore destinato a fare la storia non solo del club, ma dello sport in generale.

David Beckham (@Shutterstock)

Il 7 come stile di vita: la nascita di CR7

Prima di entrare nel dettaglio, è necessario fare un piccolo excursus. Secondo diversi narratori sportivi, il rapporto fra George Best e i suoi successori non è mai stato dei migliori. Il primo numero 7 non ha mai digerito l’arroganza di Cantona o la coolness, per dirlo all’inglese, di Beckham. Per non parlare di tutti quelli che hanno portato la maglia addirittura prima dell’arrivo di King Eric, definiti senza mezzi termini “giocatori mediocri”.

Quasi come un segno del destino, nel 2003 il Manchester United annunciò l’acquisto di Cristiano Ronaldo Dos Santos Aveiro, un giovane esterno dello Sporting Lisbona che si era messo in mostra in un’amichevole ad Old Trafford. Best, ormai prossimo alla morte, guardò estasiato le prime apparizioni del portoghese, e confidò ad un suo amico giornalista che “questo si, questo è il mio successore”.

E a ben vedere, il buon vecchio George ci aveva visto lungo. Cristiano Ronaldo piombò come un fulmine a ciel sereno sui palcoscenici del calcio mondiale, mostrando una combinazione di tecnica, potenza e stile senza precedenti. I giovani tifosi di tutto il mondo si innamorarono dei suoi doppi passi, delle punizioni da 40 metri e delle scarpe sempre più colorate, che ai suoi piedi sembravano quasi delle saette.

L’asso portoghese riuscì a prendersi la scena al fianco di grandi giocatori come Rooney, Scholes e Giggs. Il suo mito divenne così grande che persino il suo numero di maglia divenne il suo marchio di fabbrica: il mondo assistette alla nascita di CR7, un fuoriclasse capace di vincere il Pallone d’Oro a soli 23 anni dopo aver guidato la squadra alla conquista della Champions League 2008. E pensare che, come raccontato dallo stesso Ronaldo, lui aveva optato per il numero 28, che portava già a Lisbona. Fu Sir Alex Ferguson ad affidargli la numero 7, vedendo in lui un talento smisurato.

Nel 2009 Cristiano Ronaldo salutò lo United, dopo aver vinto tutto con la maglia degli inglesi, e si trasferì al Real Madrid, dove aggiunse il capitolo più importante alla sua straordinaria carriera.

Maglie

Cristiano Ronaldo (@Shutter Stock)

Gli ultimi anni del Manchester United

L’addio di Ronaldo fu il preludio alla discesa dei Red Devils. Sir Alex Ferguson riuscì a vincere la sua ultima Premier League nel 2013, prima di salutare il club e lasciare spazio ai suoi successori. Iniziò un periodo davvero buio per il Manchester United, e neanche l’arrivo di nomi pesanti riuscì a salvare il club da un lento e costante declino.

La maglia numero 7 passò dalle spalle di Antonio Valencia, onesto mestierante ecuadoregno, a quelle di Michael Owen, arrivato ad Old Trafford sul finire della sua carriera. Inutile dire che né l’uno né l’altro riuscirono a lasciare il segno.

Fra il 2015 e il 2020, il fardello della 7 venne assunto prima da Angel Di Maria, poi da Memphis Depay, da Alexis Sanchez e infine da Edinson Cavani. Tutti giocatori di indubbio talento che però, per un motivo o per un altro, delusero le attese di società e tifosi.

E si arriva così agli ultimi anni, quelli segnati dal romanticissimo ritorno di Cristiano Ronaldo nel club che lo ha reso grande. Dopo una prima stagione di buon livello, segnata però da un andamento discontinuo della squadra, arriva la rottura con Ten Hag ed il resto è cosa nota: CR7 passa la prima parte di stagione in panchina e a gennaio decide di trasferirsi all’Al-Nassr.

Il cerchio si chiude, dopo un racconto che racchiude 60 anni di storia, con l’arrivo di Mason Mount. Il prezzo del cartellino e il numero di maglia pesano (e non poco) sulle spalle del fantasista inglese, che però dalla sua ha una squadra talentuosa e un allenatore che può permettergli di esprimere al meglio le sue qualità. Solo il tempo sa se Mount sarà all’altezza dei suoi illustrissimi predecessori.

Erik ten Hag (@Shutterstock)

Se la notizia è stata di vostro interesse, vi consigliamo di seguire la nostra pagina di Nasce, Cresce, Ignora, in cui potrete sicuramente trovare articoli di vostro interesse.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Condividi con chi vuoi