Se il match di ieri fosse stato un film sarebbe stato indubbiamente, se non un film dell’orrore, “Sliding doors”. Come nel capolavoro di Howitt, anche gli azzurri hanno vissuto più dimensioni nell’arco dei novanta minuti: il controllo, il profumo del gol, la speranza, l’attesa, la frustrazione e la disperazione. Nella splendida cornice del Renzo Barbera di Palermo, l’Italia di Mancini non è riuscita a staccare il pass per lo spareggio conclusivo contro il Portogallo. Tradotto: seconda eliminazione consecutiva dalla fase finale dei Mondiali.
Una disfatta giunta probabilmente contro la compagine più “appetibile” per gli azzurri, incapaci di battere Dimitrevski e condannati all’inferno dalla rete di Trajkovski.
256 giorni dopo la vittoria dell’Europeo, l’intelaiatura tattica della nazionale dimostra di non essere mutata, se non negli interpreti. Il 4-3-3 allestito dal ct si presta a più variazioni, senza però trovare il guizzo decisivo.
In fase d’impostazione, la difesa a tre composta da Florenzi, Bastoni e Mancini ha subìto il pressing del solo Trajkovski. Uno degli elementi di maggior talento della formazione macedone, Bardhi, si è francobollato su Jorginho. Il mediano del Chelsea, quindi, ha necessitato del sostegno di Verratti, consentendo ad Insigne di muoversi parallelamente rispetto ad Immobile tra le linee.
Sulla corsia opposta, Berardi ha agito defilato sull’out destro, per poi accentrarsi con il suo piede preferito per cercare la conclusione. Al 30′, proprio il fantasista del Sassuolo ha fallito il primo, clamoroso match ball: intercettando un rinvio corto di Dimitrevski, non ha approfittato dell’assenza tra i pali dell’estremo difensore, calciando lentamente e favorendone il rientro in posizione.
La forte densità nella zona centrale del campo da parte degli avversari ha concesso l’1vs1 ad Emerson sulla fascia sinistra. Il terzino, però, ha spesso rifiutato il duello, preferendo appoggiarsi su Insigne. Le sue scelte rimarcano una tendenza negativa di tutto il movimento calcistico italiano: disprezzare l’uomo contro uomo, a discapito di una differenza tecnica lapalissiana.
Poco supportato dai compagni, Ciro Immobile è rimasto intrappolato nella morsa avversaria. I suoi movimenti in profondità sono risultati facilmente leggibili dalla retroguardia di Milevski.
Nella ripresa, il copione non è cambiato: solo un tiro velleitario di Trajkovski al 52′ per i macedoni, tanto possesso palla sterile per gli azzurri. In realtà, le occasioni per la nazionale di Mancini non sono mancate: a venir meno, tuttavia, è stata la lucidità negli ultimi 30 metri. Troppi gli ultimi passaggi sbagliati, ancora di più le occasioni fallite.
L’ingresso di Raspadori ha diffuso entusiasmo e fiducia. Al 77′, Mancini ha scelto di richiamare in panchina Immobile, fin lì impalpabile ma comunque un punto di riferimento in fase offensiva. Questa mossa ha reso il gioco dell’Italia troppo prevedibile e ancora più confusionario. Mai come in questo caso, le statistiche parlano chiaro: su 32 conclusioni (dati AGI.it), gli Azzurri hanno centrato lo specchio in sole 5 circostanze, sintomo di uno scarso feeling con la porta. Ad ogni modo, l’incalcolabile quantità di palloni giocati sugli esterni apriva spiragli sulla trequarti. Anche qui, le scelte dei campioni d‘Europa in carica sono state alquanto discutibili, con pochi tiri dalla distanza.
Dall’altra parte, la nazionale macedone si è dimostrata una squadra coriacea, sorniona ed opportunista. Al 92′, il solito Trajkovski si è impadronito di una seconda palla, sfruttando un’indecisione tra Jorginho e Florenzi e capitalizzando l’unica nitida occasione con un gran gol da fuori area.
Tra le righe di condanna per l’atteggiamento tattico e psicologico degli azzurri, non possono non trovare spazio parole di elogio per i macedoni. Oltre al già citato Trajkovski, hanno colpito il sacrificio di Alioski, Bardhi, Musliu e tanti altri. Milevski ha fatto di necessità virtù, lavorando sull’altruismo dei propri calciatori, privi tra l’altro dell’elemento di maggiore qualità, vale a dire Elmas.
La sconfitta di ieri si presta a più interpretazioni tattiche, tecniche, fisiche e mentali. La realtà, però, è una sola: urge un cambio di rotta, a partire dalle scuole calcio. E bisogna anche guardare in faccia la realtà: da più di un decennio, la rosa della nazionale è poco più che mediocre. E non basta un europeo vinto per cambiarlo.
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