Rob Enderle, un analista tecnologico americano, ha annunciato che tra circa dieci anni tutti potremmo avere un “gemello digitale”. Un fratello, o forse un clone; una virtualità di noi stessi realizzata con grande accuratezza. L’entità sarà plasmata su di noi: sui nostri atteggiamenti, sui nostri ragionamenti, sui nostri dati volontariamente concessi e involontariamente rilasciati. Questa nuova “persona” potrebbe rivoluzionare il marketing del prossimo decennio.
Focus.it disegna verosimilmente quella che potrebbe essere la prossima realtà. La nostra copia digitale sarà il frutto dell’elaborazione di una grande quantità di dati che ci riguardano. Ogni volta che visitiamo un sito web, utilizziamo un’app, acquistiamo qualcosa online o presentiamo la nostra tessera fedeltà in un negozio fisico, ci lasciamo in qualche modo identificare. Emettendo impronte, alimentiamo un database, chiamato big data, che le memorizza e le archivia. Tutte queste informazioni, se opportunamente sviluppate (annesse, sconnesse, scremate, etc.), possono guidare alla formazione di un’altra nostra identità. Un “gemello digitale” dall’utilissimo potenziale per le aziende.
Facendo riferimento ad esso, infatti, qualsiasi impresa potrà disporre di varie conoscenze preveggenti. Il nostro gemello comunicherà loro se compreremmo o meno prodotto “x”, se vedremmo o meno serie tv “y”, se sosterremo la corrente politica di centro, di destra o di sinistra. In questo modo molte azioni potranno essere ottimizzate: la pubblicità mostrataci sarà più efficace, perché più aderente al nostro profilo; le proposte avanzateci saranno più coerenti e accettabili; le idee proposteci saranno opportunamente mirate.
Questo sistema, apparentemente, non dà che benefici; l’unico, grande svantaggio, però, sarebbe la sua invasività, totalmente a sfavore della privacy. Secondo la società di ricerca Gartner, tale mercato dei gemelli vale oggi quasi 5 miliardi di dollari, ma ne varrà 36 entro il 2025.
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