di Nasce Cresce Ignora
Il mondo dei videogiochi negli anni (ovviamente, purtroppo, non in Italia) è stato in gran parte sdoganato, riuscendo a liberarsi dell’appellativo di “passatempo per bambini”. L’industria videoludica ha raggiunto vette tecniche che talvolta superano (anche abbondantemente) produzioni cinematografiche di grosse dimensioni. Colonne sonore, sceneggiature, attori impiegati e campagne marketing spesso reggono il passo anche con i più importanti cinecomic.
L’altro lato della medaglia: le lunghe attese per i videogiochi
Tuttavia questa evoluzione enorme del settore, incrementatasi prepotentemente post covid, ha un prezzo da pagare: l’eccessivo hype. L’ingrandirsi delle produzioni, l’incremento della qualità generale e l’arrivo negli ultimi decenni di titoli da considerarsi veri e propri “masterpiece” (non solo del settore di competenza) hanno creato una sorta di “ansia da prestazione”.
Da una parte gli utenti non vedono l’ora di toccare con mano il nuovo step tecnologico, la nuova frontiera dell’intrattenimento. Hanno fame e vogliono sempre di più. Dall’altra le case di produzione si fanno ingolosire da questo hype, spesso annunciando nuovi giochi attesissimi (spesso prosiegui di franchise amatissimi) con anni e anni di anticipo, senza avere nulla di concreto in mano. Ha senso creare aspettative e attese senza nemmeno essere in pre produzione?
L’hype è il combustibile dei videogiochi, ma occhio a non farlo diventare la loro rovina
Sembra che le major non capiscano che l’eccitazione è effimera. Svanisce nel giro di qualche mese e poi diventa, per la stragrande maggioranza di chi deve aspettare a lungo, solo frustrazione. Per quanto questi annunci tanto frettolosi siano probabilmente solo un voler cavalcare l’onda e, in un certo senso, tastare anche la reazione dei consumatori (e degli investitori), diventano invece un “giocare coi sentimenti” dei giocatori.
Le esigenze di case videoludiche e gamer sono profondamente differenti e difficilmente collimano. Ma servirebbe un po’ di misura, di equilibrio. Non si può annunciare un gioco 10 anni prima dell’uscita (ad andare bene), come fatto con TES 6. Lanciare la bomba e poi scomparire per anni, senza più dare un aggiornamento, è insensato e controproducente. E in un’epoca in cui i social hanno un potere enorme, è sconsigliabile scontentare la massa o generarvi rancore.
Bisogna anche però mettersi nei panni di chi sviluppa videogiochi, spesso “ostaggio” dei propri utenti. L’aumentare della qualità dei prodotti di punta, implica necessariamente una produzione più lunga e complessa, perlomeno per i titoli che non vogliono essere dei semplici “cloni”, ma vogliono mantenere la propria identità. Questo però inevitabilmente dilata i tempi, allunga l’attesa. La fretta, lo abbiamo visto, è cattiva consigliera.
Un esempio lampante è il caso Cyberpunk 2077 che, dopo un annuncio fin troppo prematuro e anni di rinvii, è uscito, soprattutto su old gen, incompleto e, talvolta, ingiocabile. E questo anche e soprattutto per le pressioni di un pubblico ormai stanco di aspettare. Ma, va detto, chi è causa del suo mal pianga sé stesso: tutte le parti in causa ci mettono del loro per mettersi in dei vicoli ciechi.
Chi sviluppa annuncia senza criterio e con largo anticipo per questioni di marketing e per attirare nuovi investitori. Mentre il povero gamer che aspetta, come già detto, sfruttando la risonanza dei social, fa rumore per smuovere le acque, ottenendo spesso l’effetto opposto. Lungi da noi giustificare il comportamento della case di produzione, ma, come sempre, la verità sta nel mezzo.
Basterebbe comunicare come si deve
Sembra paradossale, specie in questa epoca, ma l’errore è tutto nella comunicazione. Chi sviluppa dovrebbe mettersi nei panni dei propri clienti, capire che i giochetti di marketing e le tattiche di mercato, possono essere un pericoloso boomerang. Il coltello dalla parte del manico, lo ha chi compra. Perché il gioco può essere anche un capolavoro, ma se nessuno acquista resta a fare polvere sugli scaffali o sugli store digitali. Quindi perché rischiare di inimicarsi il proprio pubblico lasciandolo a “marcire” mentre aspetta un segno divino per un gioco annunciato 5-6-10 anni prima? Basterebbe essere onesti con sé stessi, senza tenere il piede in 50 scarpe. Avviare un progetto concretamente e poi, quando la produzione è effettivamente ad un punto decente, gettare l’amo per gli utenti.
Basterebbe comunicare con chiarezza, parlare senza nascondersi dietro un dito. O, piuttosto, fare come Rockstar che, dop0 10 anni dall’ultimo GTA, ancora non ha ufficializzato il sesto capitolo. E probabilmente lo farà solo pochi mesi prima che il prodotto venga lanciato. Una tattica malvista da alcuni, ma che perlomeno non crea illusioni e false aspettative: “quando saremo pronti ve lo faremo sapere”. E stop. Senza tante manfrine.
Perché proseguendo su questo trend (che negli ultimi anni sta aumentando in maniera pericolosa), giocando coi sentimenti del pubblico, si rischia di intasare il mercato di enormi “what if” che poi si rivelano buchi nell’acqua. Perché non c’è niente di più “pericoloso” (metaforicamente parlando) di un gamer deluso e arrabbiato.
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editoriale di Pietro Magnani
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