Roma (@Shutter Stock)
Il Colosseo, il Pantheon, i ponti, gli acquedotti; questi sono solo alcuni degli esempi più celebri che il passato ci restituisce della civiltà romana. Strutture edificate migliaia di anni fa, che, nonostante i terremoti, le guerre e le incurie si ergono ancora tronfie e imponenti tali e quali durante l’apogeo dell’antica Roma. Molto spesso, infatti, si prendono come esempio queste strutture per criticare le infrastrutture italiane moderne, particolarmente soggette ad agenti esogeni; ma qual è il segreto che conoscevano i Romani? Un gruppo di ricerca pare aver trovato l’ingrediente segreto, che rappresenta altresì la base di una promettente startup…
Come riporta Repubblica, a capo del gruppo di ricerca c’è Admir Masic, professore di ingegneria civile e ambientale al MIT. Insieme a lui, anche altri studiosi dalla Svizzera e dall’Italia. I risultati del lungo studio durato più di 5 anni sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista ScienceAdvances. La straordinaria resistenza delle infrastrutture dell’età antica aveva già spinto decenni fa molti ricercatori a indagare il fenomeno, arrivando alla conclusione, anche sulla base di fonti latine contemporanee, che il materiale pozzolanico (un particolare materiale vulcanico) fosse l’ingrediente determinante. Il MIT, tuttavia, ha smentito questa credenza, mettendo in luce la cosiddetta tecnica dell'”hot mixing“; vediamo di cosa si tratta.
Alla base del cemento romano c’è una miscela di calcestruzzo, a cui si aggiunge della calce viva, che, a contatto con l’acqua, riscalda tutto l’agglomerato. Il risultato di questo lavoro è la formazione di clasti (particelle, granelli) di calce che hanno la straordinaria capacità di autoripararsi. La chiave è proprio questa: in caso di fessura del materiale (dovuto a umidità e altri fattori esterni), i granelli di calce si sciolgono grazie alle infiltrazioni di acqua, fornendo degli ioni di calcio che si cristallizzano riparando la crepa.
Il cemento moderno, invece, è sprovvisto di questa capacità, per cui le fessure si ampliano sempre di più man a mano che gli agenti atmosferici vi agiscono. Come riporta Rainews, infatti, il team di ricerca ha condotto un esperimento con due campioni di calcestruzzo, uno miscelato con la tecnica utilizzata dai Romani, l’altro con le tecniche moderne. Entrambi sono stati crepati, e il primo campione nel giro di due settimane è riuscito a “rimarginare” quasi tutta la ferita, a differenza dell’altro che presentava ancora la crepa.
Acquedotto Romano (@Shutterstock)
Questa conoscenza antica potrebbe quindi rivelarsi molto utile anche per il presente. Masic, infatti, ha per molti anni collaborato con Paolo Sabatini e altri studiosi, dando vita a una startup chiamata DMAT. Paolo Sabatini in merito alla startup afferma:
“DMAT vuol dire “dematerialize” perché puntiamo a dematerializzare l’ecosistema del calcestruzzo […] Si tratta di un materiale che costa poco, disponibile ovunque e molto semplice da utilizzare, che però ha due grandi problemi: la sostenibilità e la durabilità. Noi non distribuiremo sacchetti di calcestruzzo, ma tecnologia. Venderemo ai nostri clienti formule realizzate con materiali e tecnologie semplici, che permetteranno di creare il nuovo calcestruzzo che si autoripara, dura più a lungo e riduce la CO2. Si tratta di trasferimento tecnologico e ci permetterà di agire su scala globale”.
Questa startup si promette quindi una rivoluzione in ambito architettonico, con un risparmio di CO2 che, come riporta ilSole24Ore, dovrebbe aggirarsi sul 20%. Vedremo quindi se in futuro questo “nuovo” materiale riuscirà ad avere successo.
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