Moma New York (@Shutterstock)
Il mondo dei videogiochi viene ciclicamente colpito e sommerso dalle solite, noiose accuse, e messo al centro dei medesimi dibattiti. “I videogiochi sono violenti, non possono finire tra le mani dei bambini“, oppure “Come possono essere arte Pac-Man e Tetris?“. Queste sono le sentenze e le domande che una volta ogni sei mesi sentiamo ripeterci, e a cui puntualmente controbattiamo con le solite risposte. Sulla prima questione, purtroppo, dovremo discutere ancora a lungo, ma alla seconda domanda, forse, abbiamo trovato una risposta che mette d’accordo i più, grazie alla mostra realizzata dal MoMA.
A cura di “Never Alone“, nella mostra visitabile al Museum of Modern Art di New York, c’è Paola Antonelli, curatrice italiana del museo, che si è ritrovata a fare una distinzione tra violenza gratuita e violenza mirata, per allestire l’esposizione. Per questo motivo durante la visita del museo non troveremo titoli come GTA V o Assassin’s Creed, ma piuttosto This War of Mine, una vera e propria esperienza umana realizzata da 11 Bit Studios. Come spiegato da Paul Galloway, collection specialist del MoMA a Wired, i videogiochi più interessanti presentano la violenza come spunto per una crescita personale; proprio come nel caso di This War of Mine. Un primo passo per delineare e inquadrare un titolo come arte, probabilmente è proprio fare questa distinzione.
A definire i videogiochi arte per Galloway e Antonelli, però, è il loro valore come esperienza comunitaria. Se fino a non molto tempo fa i giocatori erano visti come persone solitarie, con l’avvento dei social, del gioco online e delle piattaforme come Twitch e YouTube, la tendenza è cambiata e la rotta è stata invertita. Per Antonelli, poi, ciò che rende i videogiochi una forma di espressione artistica è la possibilità che l’utente ha di interagire con l’opera del designer. E se dobbiamo prendere questo come valore per definire ciò che è arte, allora i videogiochi ne sono l’espressione più pura.
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