di Redazione Network NCI
Solitudine. Una parola che pesa come un macigno, ma che si pronuncia sotto voce. Nell’era dell’iperconnessione, milioni di persone si sentono più sole che mai. Non per mancanza di contatti, ma per mancanza di connessioni vere. Ed è qui che entrano in gioco i videogiochi: non più solo intrattenimento, ma un vero e proprio rifugio. Un luogo dove la sofferenza trova un angolo per respirare e dove l’anima anche se ferita, riesce a sentirsi accolta.
Non tutti lo capiscono, ma chi ha passato notti intere davanti a uno schermo senza parlare con nessuno, sa esattamente di cosa stiamo parlando.
Videogiochi e solitudine: quando l’unico amico è un controller
A volte la vita ti toglie tutto: l’ascolto, l’affetto, la presenza. Ti svegli e ti senti vuoto e nessuno ti guarda davvero. È in quel momento che il joystick diventa ancora di salvezza. Non perché i videogiochi siano più importanti della realtà, ma perché, in certi momenti, la realtà fa troppo male.
Ci sono storie che non si raccontano, ma si vivono in silenzio. Ragazzi e ragazze che entrano in mondi virtuali perché in quello reale nessuno li chiama mai per nome. Persone che trovano conforto in un PNG che ripete la stessa frase ogni giorno, ma che almeno non giudica. Che trovano un senso in un respawn, quando nella vita vera non si sentono più in grado di rialzarsi.
Life is Strange, Red Dead Redemption 2, The Last of Us, Detroit: Become Human e molti altri, non sono semplici giochi. Sono luoghi dove si può piangere senza dover spiegare perché. Dove una musica, un paesaggio, una scelta difficile parlano al cuore più di mille conversazioni nella realtà.
Videogiochi e solitudine: la linea sottile tra rifugio e prigione
Ma non tutto è poesia. Perché quando la solitudine diventa abitudine e i videogiochi l’unica via d’uscita, il rifugio può trasformarsi in gabbia. Le ore si allungano, le relazioni svaniscono, il corpo si spegne lentamente, mentre la mente si rifugia altrove. Il controller resta caldo, ma le mani iniziano a tremare. La vita continua fuori, ma tu hai messo in pausa.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto il “gaming disorder” come una condizione reale. Eppure il problema non è il gioco. È il dolore che ci spinge a rifugiarci lì dentro. È ciò che manca fuori. Il vero male è l’indifferenza di un mondo che vede un gamer isolato e lo etichetta come pigro, malato, strano e senza mai chiedersi cosa gli è successo prima.
Per molti, l’unico momento in cui si sentono davvero vivi è mentre impersonano qualcuno che non sono davvero. Perché la loro versione reale, nessuno la guarda mai.
Videogiochi e solitudine: la richiesta d’aiuto dietro uno schermo
Dovremmo chiederci più spesso: cosa sta cercando quella persona lì, con le cuffie in testa e gli occhi fissi sul monitor da 12 ore? Forse sta solo cercando di non piangere. Forse ha appena perso qualcuno. Forse è stata esclusa, bullizzata, ignorata per anni. E ora, per la prima volta, sente di valere qualcosa, anche solo per aver completato una missione con uno sconosciuto dall’altra parte del mondo.
È facile giudicare. È molto più difficile sedersi accanto a chi soffre e ascoltare. Senza voler aggiustare, senza voler spiegare, solo esserci.
Videogiochi e solitudine: trovare un senso, insieme
I videogiochi, a modo loro, salvano vite. Danno tempo a chi non ne ha più. Offrono compagnia a chi dorme con il telefono in mano, sperando che qualcuno risponda. Non sono una cura, non bastano. Ma a volte, sono tutto quello che resta. E in certi momenti, è abbastanza.
Se conosci qualcuno che passa la notte a giocare, non spegnere il Wi-Fi. Non urlare, non ridere, chiedigli cosa lo tiene sveglio. Abbi il coraggio di vedere ciò che sta cercando davvero. Perché, a volte, dietro una partita online si nasconde un grido che nessuno ha mai voluto ascoltare.
Non sempre chi gioca troppo vuole scappare dalla vita, spesso, sta solo cercando un modo per restare.
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Articolo di Pieralessandro Stagni
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