I film horror sono famosi per due cose: per chi urla guardandoli e per chi causa le urla. In questa top, ci concentreremo sulla seconda categoria. Andremo a classificare i personaggi più famosi dei film horror: i più grandi killer della storia dei film orrorifici.
Dietro quella maschera bianca dal grido perenne, non c’è un solo assassino. C’è l’idea stessa del killer, dell’orrore che può nascondersi in chiunque.
Ghostface non è una persona, ma una maschera collettiva, un simbolo del male che si rinnova a ogni generazione. Ed è proprio questo a renderlo così terrificante: ogni volta che credi di aver capito chi sia, lui cambia volto.
Nato dalla mente di Wes Craven e Kevin Williamson, Ghostface ha ridefinito gli anni ’90 riportando in auge il genere slasher, ma con un tocco meta e autoironico: le vittime conoscono le regole dell’horror… eppure muoiono comunque.
È un killer che gioca con lo spettatore, che usa il linguaggio del cinema come un’arma.
Visivamente, Ghostface è semplice: un costume da Halloween, un mantello nero e una maschera economica. Ma proprio questa banalità lo rende inquietante. Non è un mostro sovrannaturale o un esperimento fallito: è una persona qualunque, uno studente, un amico, un partner. È la banalità del male con un coltello in mano.
Ghostface è l’unico slasher che riesce a farti ridere, poi a urlare e infine a farti pensare.
E in un genere che spesso punta solo alla carneficina, lui si distingue perché uccide anche con le parole, prima ancora che con la lama.
Il pupazzo “Good Guy” con il sorriso stampato e gli occhi azzurri è diventato una delle icone più disturbanti della storia dell’horror.
A prima vista sembra un giocattolo innocente, ma dentro di lui si nasconde Charles Lee Ray, uno spietato serial killer che, morendo, trasferisce la propria anima nel corpo di plastica attraverso un rituale voodoo.
Da quel momento, l’infanzia non è più un rifugio sicuro e la parola “giocare” assume un nuovo significato.
Chucky è l’incarnazione perfetta di una paura infantile: che ciò che amiamo prenda vita e ci tradisca.
La sua presenza funziona su più livelli:
È fisicamente innocuo, ma letale grazie alla furbizia e all’imprevedibilità.
È comicissimo e spaventoso insieme: la sua lingua tagliente e le battute volgari si mescolano alla brutalità delle sue uccisioni.
È implacabile: non importa quante volte venga distrutto, tornerà sempre, pezzo dopo pezzo.
A partire dal film originale di Tom Holland del 1988, fino al reboot e alla serie TV recente, Chucky ha mantenuto intatto il suo carisma macabro.
È diventato una leggenda dell’horror pop, capace di adattarsi ai tempi:
negli anni ’90 era la parodia della violenza slasher, nei 2000 un anti-eroe sarcastico, oggi un simbolo della paura postmoderna: ironica, ma ancora letale.
La voce di Brad Dourif (e più tardi di Mark Hamill nel remake) è ciò che lo rende immortale: un misto di risata isterica e sadismo puro.
In fondo, Chucky rappresenta una delle verità più inquietanti del genere: non è necessario essere grandi per mettere paura, basta essere vivi quando non dovremmo.
“Voglio fare un gioco con te“
Con questa frase glaciale, John Kramer, alias Jigsaw, è entrato per sempre nella cultura pop. Ma a differenza degli altri killer di questa lista, Jigsaw non è un assassino nel senso tradizionale: non uccide nessuno direttamente. Le sue vittime muoiono perché non vogliono vivere abbastanza.
Un tempo ingegnere malato terminale, Kramer decide di “dare una lezione” al mondo, punendo chi spreca la propria esistenza. Costruisce trappole mostruosamente elaborate, ciascuna con un’unica regola: se vuoi sopravvivere, devi dimostrare di meritare la vita, anche a costo di perdere un arto, un occhio o la tua umanità.
Jigsaw è l’evoluzione del killer moderno: filosofico, metodico e moralmente ambiguo. Non prova piacere nell’uccidere, ma nel giudicare. Le sue parole, dette con tono misurato, sono più spaventose della violenza stessa.
È la razionalità portata all’estremo, la crudeltà travestita da redenzione.
Il design dei suoi strumenti di tortura, la reverse bear trap, la needle pit, le blade boxes, è diventato leggendario. Ma ciò che davvero terrorizza è la logica che c’è dietro: ogni trappola è una metafora della colpa, ogni morte una lezione di vita (per chi sopravvive).
Interpretato magistralmente da Tobin Bell, Jigsaw è quasi una figura messianica dell’orrore: pallido, calmo, e convinto di essere nel giusto. Nei suoi film, l’orrore non arriva dall’esterno, arriva dalla tua stessa volontà di sopravvivere.
“La maggior parte delle persone non è grata di essere viva. Ma tu no. Non più”.
Questa è la filosofia di Jigsaw e anche la sua maledizione: credere di poter purificare il mondo attraverso la sofferenza. Ed è per questo che, tra tutti i killer della lista, è il più inquietantemente umano.
Se dormire è l’unica via di fuga dal dolore, allora Freddy Krueger è la condanna eterna. Con il volto bruciato, il cappello logoro e il guanto artigliato, Freddy è uno dei killer più riconoscibili e più sadici della storia del cinema horror. Creato da Wes Craven, nasce come incarnazione delle paure inconsce: un ex assassino di bambini bruciato vivo dai genitori delle sue vittime, che ritorna come entità sovrannaturale capace di uccidere nei sogni.
E qui sta la genialità del personaggio: nessuno può sfuggirgli. Chiunque deve dormire, prima o poi. E quando lo fai, lui è lì, ad aspettarti nel buio.
Freddy non è solo un mostro, è un concetto: rappresenta la colpa collettiva, la punizione che ritorna, il trauma che ti raggiunge anche quando credi di essere al sicuro. Il suo aspetto è un capolavoro del body horror, pelle ustionata, sorriso storto, occhi febbrili, ma è la sua personalità a renderlo indimenticabile. Freddy non uccide in silenzio. Freddy parla. Scherza, provoca, umilia le sue vittime prima di finirle. È il clown dell’inferno, la risata che accompagna la morte.
Robert Englund gli ha dato una presenza unica: teatrale, carismatica, inquietante. Nei primi film è puro terrore, poi diventa sempre più ironico, ma mai meno spaventoso. Perché il segreto di Freddy è che non si limita a uccidere il corpo, uccide la mente.
Visivamente, ogni sua apparizione è un trip lisergico: muri che si deformano, letti che inghiottono persone, corridoi che si allungano all’infinito. È un incubo cinematografico puro, dove l’immaginazione stessa diventa arma. “Questo… è Dio“, dice Freddy, mostrando le sue lame. Ed è vero: nel mondo dei sogni, lui è onnipotente.
Se Freddy è il terrore che ti colpisce nel sonno, Jason Voorhees è quello che ti raggiunge nella realtà più banale: il campeggio, l’acqua, la giovinezza spensierata. Là dove si ride e si ama, lui arriva, in silenzio, con la sua maschera da hockey, il machete in mano e il passo pesante di chi non ha più nulla da perdere.
Jason è la personificazione del trauma irrisolto, la vendetta che non si ferma, la forza cieca della morte.
Un bambino deforme, annegato nel Crystal Lake per colpa della negligenza dei suoi sorveglianti. Sua madre, Pamela, apre la saga come la prima assassina. Ma quando anche lei muore, Jason si rialza dalla tomba e non smette più.
Non parla. Non corre. Non ragiona. Avanza. Sempre. Ed è proprio questo a renderlo così spaventoso: non c’è emozione, non c’è umanità, solo una missione eterna. Jason è l’opposto di Freddy: nessun sogno, nessuna battuta, solo il silenzio del bosco, il rumore dell’acqua e il suono di una lama che fende l’aria.
Col tempo è diventato quasi un’icona pop, ma ogni sua apparizione resta disturbante. Perché dietro quella maschera c’è un corpo che non può morire, un’anima bloccata tra l’infanzia e la furia, un simbolo della colpa che torna a bussare.
Le sue uccisioni sono brutali, fisiche, viscerali. Non c’è ingegno, solo istinto. Jason non gioca con le vittime: le elimina.
E poi c’è il suo mito cinematografico, il killer immortale, il volto del “body horror slasher” anni ’80, l’ombra che ha definito un genere. Non parla. Non sogna. Non perdona. Solo il suono di una lama nel buio.
C’è un motivo se per molti Michael Myers non è un uomo, ma “La Forma del Male”. Non parla, non prova emozioni, non ha un piano. Non uccide per vendetta o piacere, uccide perché esiste, e la sua stessa esistenza è un atto di terrore.
A differenza di Jason o Freddy, Myers non è soprannaturale in modo esplicito: è semplicemente incomprensibile.
Un bambino che, la notte di Halloween del 1963, indossa una maschera da clown e pugnala la sorella a morte. Nessun trauma, nessun abuso, nessun movente. Solo il vuoto. Da lì nasce la paura più pura: quella che non ha spiegazioni.
Il suo cammino silenzioso per le strade di Haddonfield è diventato un simbolo del male banale, un uomo qualunque, in una maschera bianca, che ti osserva dalla finestra. Non scappa, non corre, non urla. Ti segue. Sempre. E prima che tu possa gridare, è già dietro di te.
John Carpenter, il suo creatore, lo concepì come “un’entità senza volto, senza passato, senza pietà”.
E quella colonna sonora, quelle tre note ipnotiche, sono bastate per scolpire Michael Myers nel mito.
Lui è l’origine del moderno slasher movie, l’archetipo che tutti gli altri hanno seguito.
Jason è la vendetta, Freddy è l’incubo, ma Michael Myers è il Male puro, senza motivo, senza fine. Non è un mostro sotto il letto. È quello che entra in casa tua e non se ne va più.
Il volto del terrore. Letteralmente. Leatherface non è solo un assassino: è la rappresentazione più cruda, disturbante e primitiva della follia umana. Non è un genio del male, né un mostro sovrannaturale. È una bestia intrappolata in un corpo umano, cresciuta in una famiglia di cannibali che ha fatto della violenza un rituale quotidiano.
Con la sua motosega urlante, la maschera fatta di carne umana e quel passo pesante e imprevedibile, Leatherface è il caos puro. Non c’è logica nei suoi attacchi, solo paura e panico. Quando compare sullo schermo, non c’è musica d’accompagnamento o montaggio spettacolare, solo il suono crudo del metallo, del motore e delle urla. Ed è proprio questo a renderlo così terrificante: non è cinema, sembra reale.
Tobe Hooper, nel 1974, con un budget minimo, creò un incubo che avrebbe segnato per sempre il genere horror.
Leatherface non parla, non ragiona. Grugnisce, piange, si nasconde dietro la pelle altrui perché non sa chi è davvero. È l’orrore della disumanità, ma anche della deformità emotiva: una vittima trasformata in carnefice.
Il suo potere non sta solo nella brutalità, ma nella totale assenza di controllo. Può essere infantile in un momento, e un macellaio spietato quello dopo. E nel suo urlo finale, nel sole texano che cala, c’è tutta la disperazione di un mondo malato, dove il male non ha volto, se non quello che decide di cucirsi addosso.
Quale di queste scelte vi entusiasma di più? Avreste voluto vedere qualcun altro in top? Fatecelo sapere sulla nostra pagina Instagram. Per non perdervi aggiornamenti, curiosità e approfondimenti sul mondo del cinema, continuate a seguirci su Nasce, Cresce, Streamma.
Articolo di Lorenzo Giorgi
In un hotel di Alghero (in provincia di Sassari) un matrimonio con oltre duecento invitati…
A ricevere il riconoscimento di World's Best Bar 2025 (i 50 migliori bar al mondo…
Sono stati pubblicati a Pesaro i risultati dell'indagine condotta dallo studio The Power of Play…
Secondo un insider, Avengers Doomsday avrà un eroe in meno. Sembra infatti che Spider-Man potrebbe…
HBO ha deciso di ricordare al pubblico uno dei suoi fiori all'occhiello: Il Trono di…
Tron: Ares è finalmente arrivato nelle sale italiane e, anche grazie al carisma di Jared…