Benvenuti in una Top 6 targata NCS! Il 10 novembre approderà su Netflix The Killer, il nuovo film di David Fincher con protagonista Michael Fassbender. Per l’occasione abbiamo deciso di stilare una classifica dei migliori lungometraggi diretti dal cineasta americano. Da Seven a Gone Girl, passando per The Game e Fight Club, David Fincher ha sempre amato giocare con la mente del pubblico, offuscando il confine tra realtà e finzione al fine di orchestrare degli inganni e dei plot twist memorabili. La sua filmografia, però, non offre solo intrattenimento sfrenato ed effimero. Dietro al rigore formale, infatti, il cinema di Fincher nasconde una riflessione profonda sulla precarietà e l’indifferenza della società contemporanea.
Ad aprire la classifica troviamo il film più controverso e divisivo di David Fincher. Scritto da suo padre Jack negli anni ’90, Mank mette in scena la (presunta) rivalità tra due mostri sacri come Orson Welles (Tom Burke) e Herman J. “Mank” Mankiewicz (Gary Oldman). Il sonoro, la fotografia di Erik Messerschmidt (interamente in bianco e nero) e la pulizia tecnica di David Fincher contribuiscono a creare un’atmosfera suggestiva, pregnante e immersiva. Siamo a Hollywood, nel 1940, e il giovane Orson Welles ha da poco firmato un contratto d’oro con la RKO. Per il suo primo film da regista decide di collaborare con l’esperto Mank; solo due anni dopo, i due vinceranno l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale. La storia viaggia su due binari temporali, che raccontano rispettivamente la genesi di Quarto potere e l’oscuro passato di Mank.
Gone Girl è uno dei film più densi e stratificati della carriera di David Fincher. La trama ruota attorno ai coniugi Dunne, il cui rapporto, dopo l’idillio iniziale, è in profonda crisi. Rientrando a casa il giorno dell’anniversario di nozze, Nick (Ben Affleck) scopre che sua moglie Amy (Rosamund Pike) è scomparsa, e tutti gli indizi fanno pensare a un omicidio. In bilico tra mistery, thriller psicologico e commedia grottesca, L’amore bugiardo – Gone Girl riflette sulla vita di coppia nel ventunesimo secolo, e sul potere opprimente della stampa e dell’opinione pubblica. Accompagnato dalle – inconfondibili – note musicali di Trent Reznor e Atticus Ross, David Fincher confeziona un’opera ambigua e travolgente, pervasa da una tensione latente. Mentre esamina l’influenza dei mass media sulla società dell’immagine, Fincher scava negli abissi della mente umana, mostrandone il lato oscuro.
Concedeteci uno strappo alla “Prima Regola” per parlare di Fight Club, un’opera viscerale, multiforme e sovversiva. La storia, ormai, la conosciamo tutti. Stanco della sua vita omologata e insipida, il protagonista (interpretato da un Edward Norton in stato di grazia) orchestra un piano per abbattere i valori tradizionali della società dei consumi. Da molti ritenuto un inno alla violenza e alla mascolinità tossica, Fight Club si limita in realtà a esplorare l’alienazione, il nichilismo e le paranoie della generazione X. Di fatto, Tyler Turden (Brad Pitt) non è altro che il frutto della repressione dei sentimenti imposta dalla società, che predilige l’attaccamento ai beni materiali non essenziali (il cosiddetto “nido IKEA”). Con Fight Club, David Fincher sigilla il connubio perfetto tra il suo passato da regista di videoclip e il cinema postmoderno.
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