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Top 6 film di Guillermo Del Toro

di Redazione Network NCI

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Guillermo Del Toro è uno dei registi più iconici della nostra generazione. Il suo cinema unisce favola, orrore e poesia visiva. In questa Top 6, andremo ad esaminare i migliori film dell’autore, con tanto di menzione speciale.

Top 6 film di Guillermo Del Toro

Menzione speciale – Crimson Peak (2015)

Crimson Peak

Con Crimson Peak, Guillermo Del Toro firma forse il suo film più apertamente gotico. Non un horror convenzionale, non un semplice romance, ma un’opera che si inserisce con consapevolezza nella tradizione delle ghost stories ottocentesche e nei melodrammi in costume. Ambientato in una dimora fatiscente che sembra respirare e sanguinare, il film racconta la storia di Edith (Mia Wasikowska), giovane aspirante scrittrice che si innamora del misterioso Thomas Sharpe (Tom Hiddleston) e finisce per trasferirsi nella sua inquietante magione insieme alla cognata Lucille (Jessica Chastain).

Il cuore pulsante del film non è il soprannaturale, ma la tensione umana. I fantasmi, splendidamente resi da effetti visivi disturbanti e poetici al tempo stesso, sono più che altro manifestazioni della memoria e del trauma. La vera minaccia è Lucille, interpretata da una Jessica Chastain magnetica e terribile, che incarna l’ossessione e la follia gotica meglio di qualsiasi spettro.

Dal punto di vista visivo, Del Toro dà libero sfogo alla sua passione per i colori saturi, le scenografie labirintiche e gli abiti sontuosi: rosso e nero dominano la palette cromatica, creando un film che si avvicina più a un dipinto preraffaellita in decomposizione che a un tradizionale horror hollywoodiano. Crimson Peak non ebbe grande successo commerciale e divise la critica, ma oggi viene rivalutato come uno degli esperimenti estetici più puri del regista, un manifesto visivo del suo amore per il gotico.

Numero 6 – Hellboy II: The Golden Army (2008)

Hellboy II

Con Hellboy II, Guillermo Del Toro dà sfogo totale alla sua fantasia visiva e mitologica. Rispetto al primo capitolo, più ancorato a una struttura da cinecomic classico, questo sequel è un’opera che mescola epica fiabesca, folklore oscuro e azione fumettistica. La trama segue Hellboy (Ron Perlman) e la sua squadra della B.P.R.D. contro il principe Nuada, erede di un’antica stirpe elfica intenzionato a risvegliare un esercito dorato e inarrestabile per punire l’umanità.

Quello che rende Hellboy II speciale non è solo la trama, ma la capacità di Del Toro di costruire un mondo vivo e credibile: il Mercato Troll, con le sue creature eccentriche, è un trionfo di make-up prostetico e design mostruoso degno di un museo dell’immaginario; le atmosfere oscillano continuamente tra l’umorismo, il tragico e l’onirico, dando vita a un film che sembra una fiaba oscura raccontata a lume di candela.

Ron Perlman conferma qui la sua perfetta incarnazione di Hellboy: cinico e ironico, ma anche vulnerabile e umano nel suo amore per Liz Sherman (Selma Blair). E poi c’è Abe Sapien (Doug Jones), che acquista maggiore centralità e sensibilità poetica. A emergere con forza è il tema caro a Del Toro: il conflitto eterno tra l’umanità e il mondo delle creature dimenticate, dove spesso i “mostri” si rivelano più compassionevoli degli uomini stessi.

Hellboy II: The Golden Army rimane, ancora oggi, uno dei cinecomic più originali e visionari mai realizzati, capace di portare la mitologia moderna in un territorio che nessun altro regista aveva osato esplorare con tanta grazia. È l’esempio perfetto, in questa Top 6, di come Del Toro riesca a innestare le sue ossessioni artistiche anche all’interno di un blockbuster.

Numero 5 – La spina del Diavolo (2001)

La spina del Diavolo

Con La spina del Diavolo, Guillermo Del Toro ci porta in una Spagna lacerata dalla Guerra Civile, ambientando un racconto che è allo stesso tempo ghost story e allegoria storica. La vicenda segue Carlos, un ragazzino orfano che viene accolto in un collegio isolato, gestito da sostenitori repubblicani. In quel luogo sospeso tra la polvere, le ombre e il silenzio, aleggia però una presenza inquietante: il fantasma di un bambino con una misteriosa ferita sulla fronte.

Del Toro costruisce un film che non è mai puro horror, ma un’elegante fusione di tragedia storica, fiaba oscura e dramma psicologico. Il soprannaturale, più che fare paura, diventa un mezzo per raccontare il trauma della guerra, i segreti taciuti e la crudeltà degli uomini. Il vero orrore non è lo spettro che infesta i corridoi, ma la brutalità cieca di chi sfrutta i più deboli: il custode Jacinto, con la sua violenza e avidità, diventa un simbolo della barbarie che divora ogni speranza di futuro.

Esteticamente, La spina del Diavolo è un manifesto della poetica di Del Toro: le inquadrature cariche di simboli (la bomba inesplosa al centro del cortile, metafora perfetta della guerra pronta a deflagrare da un momento all’altro), l’uso sapiente della luce e delle ombre, e quel design del fantasma, pallido, con una ferita che lascia colare sangue come se fosse acqua, che diventa icona visiva e metafora di un’infanzia spezzata.

Questo film è spesso considerato il “gemello oscuro” de Il Labirinto del fauno: se in quest’ultimo la guerra incontra la fantasia di una bambina, qui incontra la malinconia e il terrore silenzioso di un orfanotrofio infestato. In entrambi i casi, però, Del Toro ribadisce la sua convinzione che i veri mostri non sono quelli che vivono nell’ombra, ma quelli che camminano tra gli uomini.

Numero 4 – Pacific Rim (2013)

Pacific Rim

Con Pacific Rim, Guillermo Del Toro abbandona le atmosfere gotiche e le suggestioni storiche che contraddistinguono gran parte della sua filmografia, per lanciarsi in un’epopea fantascientifica che è, a tutti gli effetti, una dichiarazione d’amore agli anime giapponesi e al cinema kaijū. Il film racconta la battaglia dell’umanità contro i Kaiju, giganteschi mostri emergenti da un portale interdimensionale nel Pacifico, affrontati con colossali robot da combattimento chiamati Jaeger, pilotati da coppie di guerrieri sincronizzati mentalmente.

La trama, semplice nella struttura, diventa il pretesto per costruire uno spettacolo visivo di proporzioni monumentali: i combattimenti tra Jaeger e Kaiju non sono solo pura azione, ma coreografie studiate come danze di acciaio e distruzione. Del Toro sfrutta al massimo la scala cinematografica, facendo percepire al pubblico ogni tonnellata di metallo, ogni colpo, ogni onda generata dai passi delle creature.

Ma Pacific Rim non è solo un “giocattolone” visivo. Al suo interno, c’è la riflessione tipica del regista sul senso di comunità e sacrificio. I piloti Jaeger non combattono da soli: devono fondere mente e cuore per riuscire a controllare le macchine, diventando simboli di cooperazione e fratellanza. È una metafora potente sulla necessità di abbattere l’individualismo per affrontare le sfide globali, e in questo senso, il film è molto più “umano” di quanto la sua veste da blockbuster faccia pensare.

Esteticamente, Del Toro porta nel genere una cura rara: i Jaeger hanno design unici e riconoscibili (dal Gipsy Danger con il suo look da eroe “classico”, al Cherno Alpha con estetica sovietica e massiccia), i Kaiju sono creature disturbanti e creative, sempre con quel tocco biologico-grottesco tipico del regista. Inoltre, la fotografia notturna e piovosa conferisce alle battaglie un’atmosfera da incubo tecnologico, in cui neon e metallo si mescolano con acqua e sangue alieno.

Per molti, Pacific Rim è il blockbuster più “puro” e sincero di Del Toro: un film che si diverte e diverte, senza perdere però quell’anima autoriale che lo distingue dalla massa dei cine-spettacoli contemporanei.

Numero 3 – Cronos (1993)

Cronos

Con Cronos, il suo esordio nel lungometraggio, Guillermo Del Toro mette immediatamente in chiaro quale sarà la cifra stilistica e tematica della sua carriera: un intreccio di orrore e meraviglia, una sensibilità fiabesca innestata su racconti gotici e una profonda attenzione per l’umanità dei mostri.

Il film ruota attorno a un antico dispositivo alchemico, il “meccanismo di Cronos”, che garantisce eterna giovinezza e vita eterna, ma al prezzo della trasformazione in una creatura simile a un vampiro. L’oggetto viene trovato da Jesús Gris, un anziano antiquario che, inizialmente, ne resta affascinato, per poi scoprire i suoi effetti oscuri. Nel frattempo, un ricco morente e suo nipote senza scrupoli cercano di impossessarsene, dando il via a un conflitto in cui il vero orrore non risiede solo nella macchina, ma nella cupidigia e nella brama di potere degli uomini.

Quello che colpisce di Cronos non è tanto l’aspetto horror in senso stretto, quanto la delicatezza con cui Del Toro lo avvicina. L’immortalità, qui, non è un dono ma una condanna che porta con sé isolamento, dipendenza e la lenta perdita di sé. Eppure, il cuore del film batte nel rapporto tra Jesús e la sua nipotina Aurora: una relazione fatta di sguardi, gesti e silenzi che incarna il contrasto tra la purezza dell’infanzia e la corruzione dell’avidità adulta.

Dal punto di vista visivo, Del Toro sperimenta già tutti i tratti che diventeranno la sua firma: le atmosfere barocche e decadenti, il gusto per gli oggetti antichi carichi di storia, l’uso del rosso come colore simbolo del sangue e del desiderio, l’invenzione di un dispositivo meccanico che sembra vivo, un ibrido inquietante tra macchina e organismo. Ogni elemento sembra uscito da un incubo fiabesco, dove la bellezza e il terrore convivono.

Cronos è un’opera piccola, girata con un budget limitato, ma possiede un’intensità tale da risultare ancora oggi una delle prove più personali e poetiche del regista. Non è solo un film dell’orrore: è una riflessione sull’ossessione umana di dominare il tempo e sulla fragilità dei legami che ci rendono davvero immortali, ovvero quelli affettivi.

Numero 2 – La Forma dell’Acqua (2017)

La Forma dell'Acqua

Con La Forma dell’Acqua, Guillermo Del Toro realizza quello che può essere considerato il suo capolavoro riconosciuto a livello mondiale, tanto da valergli il Premio Oscar come Miglior Film e Miglior Regia. È un’opera che incarna al meglio la sua poetica: l’amore per i mostri, la fusione tra realismo storico e fantasia e la convinzione che l’empatia possa scardinare anche le gabbie più rigide dell’intolleranza.

Ambientato negli Stati Uniti degli anni ’60, nel pieno della Guerra Fredda, il film racconta la storia di Elisa, una donna muta che lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio governativo segreto. Qui scopre l’esistenza di una misteriosa creatura anfibia, catturata e torturata dai militari, e sviluppa con lei un legame profondo che si trasforma presto in amore. Da questo rapporto nasce un conflitto non solo romantico, ma politico e morale, poiché la creatura diventa simbolo di diversità, contro cui si scontrano pregiudizio e paura.

La forza del film risiede nel modo in cui Del Toro ribalta le convenzioni del genere: ciò che normalmente sarebbe considerato “mostruoso” diventa invece depositario di dolcezza, fascino e sensualità, mentre gli esseri umani, rappresentati dal crudele colonnello Strickland, incarnano violenza, sadismo e cieca obbedienza. Elisa e la creatura non comunicano con le parole, ma con i gesti, gli sguardi, il silenzio e la musica: un linguaggio universale che parla di accettazione e desiderio, dove l’amore non conosce barriere di specie, forma o provenienza.

Dal punto di vista visivo, La Forma dell’Acqua è un trionfo dello stile del regista: atmosfere oniriche immerse nei toni del verde e del blu, un’estetica che unisce il realismo malinconico della Guerra Fredda a suggestioni da favola romantica, e l’uso dell’acqua come elemento simbolico di fluidità, libertà e trasformazione. La creatura stessa, frutto di straordinari effetti pratici e del lavoro dell’attore Doug Jones, si colloca tra i mostri più memorabili della storia del cinema contemporaneo.

Con questo film, Del Toro porta a compimento un percorso iniziato con opere come Cronos e Il Labirinto del fauno: raccontare i margini, dare voce a chi non ne ha, e dimostrare che i veri mostri non sono coloro che appaiono diversi, ma coloro che rifiutano l’umanità in nome del potere e del conformismo.

La Forma dell’Acqua è una fiaba adulta, un manifesto di inclusione e un’opera d’arte che trasforma il cinema in poesia.

Numero 1 – Il Labirinto del fauno (2006)

Il Labirinto del fauno

Con Il Labirinto del fauno, Guillermo Del Toro raggiunge il culmine della sua poetica, fondendo storia e mito, realtà e fantasia, innocenza e orrore in un film che è insieme una fiaba oscura e un dramma politico. Non sorprende che venga considerato da molti il suo capolavoro assoluto e che abbia conquistato tre Premi Oscar (fotografia, scenografia e trucco), oltre al plauso unanime della critica internazionale.

Ambientato nella Spagna del 1944, durante la dittatura franchista, il film segue la giovane Ofelia, una bambina che si rifugia in un mondo fantastico per sfuggire all’atroce realtà: la convivenza con il crudele patrigno, il capitano Vidal, ufficiale spietato e simbolo del fascismo imperante. In questo universo parallelo, Ofelia incontra il Fauno, una creatura enigmatica che le affida tre prove per reclamare la sua vera identità: quella di principessa di un regno sotterraneo.

Il cuore del film è proprio questa doppia narrazione: da un lato la brutalità della guerra civile e del regime, con il realismo crudo delle torture, della violenza e della resistenza partigiana; dall’altro, la dimensione onirica e inquietante delle prove di Ofelia, che mescola meraviglia e terrore con creature come il rospo gigante, il terrificante Uomo Pallido e lo stesso Fauno, mai del tutto rassicurante. Il genio di Del Toro sta nel non dare mai una risposta definitiva: ciò che vediamo è davvero un mondo magico, o il frutto dell’immaginazione di una bambina traumatizzata?

Esteticamente, il film è una sinfonia visiva: atmosfere gotiche, scenografie barocche, un uso sapiente della luce e del colore che contrappone il grigiore cupo della guerra ai toni caldi e dorati del mondo sotterraneo. Ogni creatura è realizzata con effetti pratici e trucco prostetico che danno al film una materialità tangibile, una sensazione di fiaba antica che prende corpo davanti ai nostri occhi.

Ma ciò che rende Il Labirinto del fauno un’opera immortale è il suo significato profondo: la fantasia non come fuga, ma come atto di resistenza. Ofelia affronta il dolore del mondo reale rifugiandosi nell’immaginazione, trovando nella magia un’ultima forma di libertà, di speranza e di ribellione. È un film che ci ricorda che le storie hanno il potere di salvarci, anche quando tutto sembra perduto.

In definitiva, Il Labirinto del fauno non è solo il miglior film di Guillermo Del Toro, ma anche una delle pellicole più importanti del cinema contemporaneo: una favola per adulti che parla di mostri e magia per raccontare la verità più amara e luminosa sull’essere umano.

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Articolo di Lorenzo Giorgi

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