di Redazione Network NCI
Ghost of Yotei è uno dei videogiochi che si trova al centro della solita, stancante e sterile polemica “woke”, per cui una protagonista femminile fa storcere il naso a una ricalcitrante parte della community videoludica.
Capita sempre più spesso di leggere commenti da parte di coloro che credono che ci siano scelte artistiche più politicamente corrette di altre, ma noi saremo sempre dalla parte della libertà di creazione degli studi, che hanno il diritto di rappresentare l’eterogeneità del mondo senza essere accusati di perseguire chissà quali dettami ideologici.
Ghost of Yotei: al centro della bufera
Gli sviluppatori hanno chiarito che si sono concentrati a sviluppare una storia in cui il giocatore si sarebbe dovuto mettere nei panni di un personaggio in “una condizione di svantaggio” e che quindi un personaggio femminile sarebbe stata un’ottima scelta.
Ma cosa c’è alla base di queste critiche? A parere nostro, è piuttosto chiaro come il vero problema non sia tanto la rappresentazione in sé di una protagonista femminile, ma il ruolo che occupa.
Atsu, una donna mercenaria, assetata di vendetta, intelligente e non “sessualizzabile” (al contrario di Lara Croft, dalla saga di Tomb Raider) è un pugno in faccia alla fan-base e ai valori tradizionali dei ruoli di genere, per i quali una donna è generalmente tenuta ad occupare certe posizioni piuttosto che altre.
In pratica, una donna intelligente dev’essere bella e in linea con quello che secondo la comunità dovrebbe essere all’interno di un videogioco.
Come al solito, è piuttosto deludente il fatto che le case di produzione di videogiochi debbano giustificare scelte artistiche personali di un prodotto culturale come i videogiochi, che non fanno altro che riflettere il contesto culturale del momento. Questo implica che sia la normalità trovare rappresentazioni di minoranze, o più generalmente categorie svantaggiate, in videogiochi più o meno recenti.
Quando andare controcorrente si rivela vincente: The Last Of Us Parte II
Una delle poche critiche che sono state mosse a The Last Of Us Parte II riguarda Abby e la sua struttura corporea, giudicata da molti come eccessivamente mascolina.
In realtà, gridare allo scandalo per questa caratteristica del personaggio significa non comprendere bene il suo background. La preparazione fisica è perfettamente consona a un mondo post-apocalittico, dove vige la legge del più forte, e alla natura militare del WLF, in cui milita.
Ma la scelta di presentare un’Abby fisicamente potente offre un quid in più se la si mette in relazione con la sua dimensione interiore. Infatti, sebbene l’aspetto fisico della ragazza manifesti una grande forza, esso è in netta contrapposizione con il suo animo vulnerabile, soggetto a forti emozioni.
Inoltre, la sua preparazione fisica è anche comprensibile alla luce della rabbia che la spinge a muovere vendetta contro Joel, ed è quindi una scelta perfettamente integrata alla trama e che non svilisce minimamente il personaggio.
Baldur’s Gate III
Alcuni hanno rimproverato a Baldur’s Gate III un’esagerata apertura al mondo LGBTQ+ (come se poi fosse un problema) per via dei numerosi personaggi e delle numerose interazioni a tale sfondo. Anche qui si può muovere la stessa obiezione mossa con TLOU 2, ovvero l’ignoranza del punto di partenza del gioco. Molti trascurano il fatto che Baldur’s Gate III si basi fondamentalmente su D&D, un mondo che da anni ha sempre promosso inclusività e personalizzazione dell’esperienza. Senza contare che NESSUNO obbliga qualcuno ad avere determinate interazioni se non le vuole. Sono un’opzione e basta.
Il genere fantasy, inoltre, ha sempre normalizzato l’esistenza di persone di vario orientamento sessuale, credo religioso e colore della pelle, rispecchiando poi quella che è effettivamente la nostra realtà. Le infinite possibilità di romance ornano il gioco con una maggiore profondità emotiva, il cui sviluppo è sempre nelle mani del giocatore e mai imposto dall’alto, come se si dovesse necessariamente seguire un’agenda. Questo è un aspetto che ha contribuito e non ostacolato il gioco al conseguimento dei numerosissimi premi che gli sono stati assegnati dalla critica.
Celeste
Rilasciato nel gennaio del 2018, Celeste è un platform 2D con protagonista Madeline, una giovane donna che ha come obiettivo quello di scalare la Montagna di Celeste. Madeline è affetta da ansia e depressione, e capirete facilmente che la salita da compiere all’interno del titolo non è solo fisica ma soprattutto interiore. Nel 2020 la creatrice Maddy Thorson ha spiegato che la protagonista è in realtà una donna transgender.
Quanto annunciato non ha minimamente attaccato il successo del gioco, ma, anzi, ne ha dato un valore in più.
L’essere transgender di Madeline non è stato subito sbattuto in faccia al mondo intero per accaparrarsi il favore del movimento woke e di una critica “progressista”, perché rispecchia l’intimità e la silenziosità con cui molte persone in transizione o post-transizione vivono la propria identità. È una storia in cui chiunque può rivedersi, perché la ricerca di sé non è solo legata all’aspetto sessuale, e, inoltre, richiede coraggio e determinazione, gli stessi che Madeline mostra all’interno del gioco. Chi non condivide la sua identità può comunque empatizzare con lei, e chi in lei si rivede, si sente finalmente visto/a.
In definitiva, ciò che quindi secondo noi dovrebbe davvero contare in un videogioco è la forza della narrazione, la profondità dei personaggi e l’impatto emotivo che l’opera riesce a generare, non l’aderenza a stereotipi di genere rassicuranti per una parte della community.
La presenza di protagoniste come Atsu e Abby rappresenta un’evoluzione naturale e necessaria nei videogiochi, che finalmente si aprono a racconti più inclusivi, autentici e coraggiosi.
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Articolo di Mirelli Emily e Steven Callea
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