Negli ultimi anni, il termine open world è diventato sinonimo di libertà nei videogiochi. I trailer promettono esplorazione totale, missioni non lineari e mondi vasti da vivere senza vincoli. Ma questa promessa viene davvero mantenuta? Tra illusioni ben costruite e innovazioni reali, analizziamo cosa si cela dietro la definizione di open world con esempi concreti e recenti come Elden Ring, Zelda: Tears of the Kingdom e Starfield.
La diffusione dei giochi open world ha cambiato radicalmente il modo in cui interagiamo con i mondi virtuali. Tuttavia, la libertà promessa da questi titoli è spesso più estetica che sostanziale. Un esempio recente è Starfield, che pur offrendo centinaia di pianeti, si rivela spesso sterile nell’esplorazione: molti ambienti sono generati proceduralmente e mancano di contenuti significativi, trasformando l’universo in un’enorme cornice vuota.
Anche Hogwarts Legacy, che ha incantato milioni di giocatori per la sua fedeltà al mondo Harry Potter, mostra limiti simili. Il giocatore può muoversi liberamente nel castello e oltre, ma l’esperienza è fortemente guidata da un punto di riferimento, checklist e missioni secondarie ripetitive. È un mondo che sembra aperto, ma in realtà ti conduce passo dopo passo lungo un sentiero già tracciato.
Elden Ring ha rappresentato una svolta nel design degli open world. FromSoftware ha eliminato mappe dettagliate, segnalini e tracciatori, lasciando al giocatore la libertà (e la responsabilità) di scoprire tutto da sé. L’approccio è radicale: il mondo è aperto, ma ostile e misterioso. Non ti guida, ti sfida. La progressione non è bloccata, ma costruita intorno a una libertà strutturale. Ogni luogo esplorato ha senso di esistere e ricompensa la curiosità.
Un altro esempio di libertà ben costruita è Zelda: Tears of the Kingdom. Diversamente da Elden Ring, qui la libertà si basa sull’interazione con il mondo fisico. I giocatori possono combinare oggetti, costruire veicoli, risolvere enigmi in modi unici. Non è solo uno spazio da attraversare, ma un sistema coerente e dinamico da comprendere e sfruttare. Questo rende ogni scoperta personale, mai imposta.
La parola open world è spesso abusata. Troppe volte si confonde l’estensione della mappa con la libertà vera. Un gioco può offrire centinaia di chilometri quadrati da esplorare, ma se tutto è riempito di missioni copia-incolla, NPC passivi e meccaniche prevedibili, quella libertà diventa solo un’illusione.
Il caso di Cyberpunk 2077 è emblematico: al lancio, Night City sembrava una città vibrante, ma interagire con essa era frustante. Dopo anni di patch e l’espansione Phantom Liberty, la città ha acquistato profondità: scelte più significative, reattività ambientale e missioni meglio integrate. Dimostrazione che un open world non deve solo essere “grande”, ma anche coerente e reattivo.
Nel 2025, un vero open world non è solo uno spazio ampio, ma un ecosistema coerente, capace di reagire e adattarsi alle scelte del giocatore. La libertà non sta solo nel potersi muovere ovunque, ma nel come ci si può muovere, interagire e affrontare gli ostacoli. Giochi come Elden Ring e Zelda: Tears of the Kingdom lo dimostrano: la vera libertà è quella che nasce dal design, non dalla superficie.
Il futuro degli open world non sarà fatto di mappe più grandi, ma di mondi più intelligenti. I giocatori vogliono meno contenuti inutili e più scelte reali. Ed è da lì che dovrà ripartire il genere degli open world, se vuole effettivamente evolvere.
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Articolo di Pieralessandro Stagni
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