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NBA, Derrick Rose si ritira: è il più grande “what if” della storia

Nella giornata di oggi il playmaker Derrick Rose, fresco di rescissione contrattuale coi Memphis Grizzlies, ha annunciato il suo ritiro dal basket giocato con un emozionante messaggio pubblicato sui suoi profili social. Finisce così la carriera di uno dei giocatori più emozionanti dell’NBA recente, capace di toccare vette altissime e abissi oscuri, insegnando al mondo intero che ognuno di noi ha la forza di rialzarsi anche quando la vita colpisce durissimo.

La sua storia è una di quelle che va ben oltre lo sport, motivo per cui consigliamo di leggere questo articolo anche se non siete particolarmente appassionati di basket. Un racconto umano, prima che agonistico, in cui emerge tanto l’etica professionale di un atleta impeccabile quanto la fragilità e la sensibilità di un ragazzo che ha lottato con tutte le sue forze per rincorrere il suo sogno.

L’infanzia di Rose, l’arrivo in NBA e i successi

Derrick Martell Rose, per tutti D-Rose, nasce a Chicago nel 1988. Fin da piccolo conosce la realtà del ghetto statunitense: cresce nel quartiere di Englewood, considerato uno dei più pericolosi d’America, fra sparatorie, spaccio e risse. È un posto lontano solo pochi chilometri dal Downtown di Chicago, eppure sembra di essere distanti anni luce dai grattacieli scintillanti del Massachussets.

Rose, come tanti suoi coetanei, frequenta tutti i giorni i campetti da basket, o court per dirla all’inglese, della sua zona. Non passa molto tempo, prima che qualcuno si accorga delle straordinarie doti tecniche e atletiche del ragazzo. Osservatori da tutto lo stato arrivano ad Englewood per vederlo giocare, la voce del prossimo prodigio del basket USA si diffonde per le strade e le palestre.

La stella di Derrick Rose splende fortissimo prima all’high school e poi all’Università di Memphis, dove registra numeri straordinari e viene riconosciuto come il prospetto numero uno della nazione. Nessuno si sorprende quando, al draft del 2008, gli Chicago Bulls utilizzano la prima scelta per riportare a casa il ragazzino di Englewood che, nel frattempo, ha sviluppato il suo gioco a livelli incredibili.

Il giovane Rose abbina un atletismo straordinario ad una sensibilità tecnica degna dei più grandi. Sa far girare la squadra, è un ottimo assistman e un difensore straordinario. Nonostante sia alto “solo” 1 metro e 90, riesce a fare canestro anche nel pitturato con una facilità disarmante. Schiacciate, appoggi al tabellone, tiri dalla media e penetrazioni fulminanti: nessuno, neanche i centri giganteschi che di solito dominano il canestro, riescono a contenerlo quando decide di mettere il turbo e arrivare fino in fondo. Rose ha una capacità paranormale di ricoordinare il corpo quando già si trova in aria, riuscendo a spostare la palla per evitare il contatto degli avversari e trovando così la via più efficace per realizzare il canestro.

Dal 2008 al 2010 si impone in NBA come uno dei giovani più talentuosi del pianeta. L’entusiasmo attorno a lui aumenta vertiginosamente: Chicago non trovava una figura così magnetica dai tempi di Michael Jordan, e in breve tempo un’intera città è ai piedi di quel fuoriclasse con la maglia numero 1.

La stagione della consacrazione è quella 2010/2011, quando D-Rose trascina i suoi Bulls fino alle finali della Eastern Conference, perse poi contro i Miami Heat di Lebron James, Wade e Bosh. Le sue straordinarie prestazioni gli valgono il titolo di MVP della lega, vinto a soli 22 anni. È ancora il giocatore più giovane di sempre ad aver ottenuto il prestigiosissimo riconoscimento. Il mondo intero cade ai suoi piedi, tutto sembra pronto per un decennio targato D-Rose. Il destino, come spesso accade, ha però altri piani per lui.

Gli infortuni, l’addio a Chicago e le difficoltà

La stagione 2011/12 comincia come era finita la precedente. D-Rose, ormai diventato una superstar globale, domina in regular season e si presenta ai playoff come uno dei giocatori più decisivi della lega. I Bulls vengono sorteggiati contro i Philadelphia 76ers: si gioca la prima gara della serie e Rose, durante una delle sue solite penetrazioni al ferro, atterra male e rimedia la lesione del crociato anteriore sinistro. Senza la propria stella, i Bulls perdono certezze e si fermano prematuramente al primo turno dei playoff.

È l’inizio del calvario personale del talentuosissimo playmaker. Rose salta tutta la stagione 2012/13, il suo main sponsor Adidas prepara una grande campagna pubblicitaria per preparare il suo ritorno in campo nell’annata 13/14 e quando il numero 1 torna a calcare il parquet dello United Center tutto il mondo NBA si ferma per omaggiare il ritorno del bimbo d’oro. I festeggiamenti durano poco: a novembre 2013, dopo solo 10 gare giocate, il ginocchio -stavolta quello destro- fa di nuovo crack. Lesione al menisco mediale e stagione finita.

Rose rimane per altri due anni a Chicago, fino a giugno 2016, ma una cosa è chiara fin da subito: gli infortuni lo hanno privato di buona parte della sua esplosività, segnandone irreparabilmente il declino. Nell’estate del 2016 Chicago, in piena rifondazione, decide di scambiare Rose ai New York Knicks. Per D-Rose è un durissimo colpo, qualcuno addirittura registra dal vivo le sue lacrime quando il suo agente gli comunica il trasferimento. Il figlio prediletto di Chicago è costretto ad abbandonare i grattacieli della sua città: ci tornerà in futuro, ma sempre da avversario, raccogliendo ogni volta l’amore dei suoi ex tifosi.

Rose rimane un solo anno ai Knicks, poi inizia il suo pellegrinaggio in NBA. Cleveland, Minnesota, Detroit, ancora New York e infine Memphis, senza mai tornare ai livelli dei primi anni in canotta Bulls. L’unico momento saliente lo registra coi Timberwolves: il 31 ottobre 2018 realizza il suo carreer-high, mettendo a segno 50 punti contro gli Utah Jazz. A fine partita, davanti alle telecamere di tutto il mondo, ripensa a tutto ciò che ha passato e scoppia in un pianto liberatorio che commuove il mondo intero.

È l’ultimo assolo di Derrick Rose, il predestinato che per un brevissimo periodo è stato forse il giocatore più determinante del mondo. Una carriera che doveva essere leggendaria, distrutta dagli infortuni e da tanta, tantissima sfortuna. Nonostante tutto, Rose non ha mai mollato. Dopo l’addio a Chicago, consapevole di non essere più quello degli anni d’oro, si è allenato per curare il corpo e migliorare gli aspetti tecnici del suo gioco, quelli slegati dal suo strapotere fisico, riuscendo così ad essere un buon role player per continuare a rincorrere il suo sogno.

Nell’ultimo periodo, il web è stato letteralmente invaso dalle compilation delle sue migliori giocate negli anni ai Bulls, sulle note di “End of Beginning” di Djo. Difficilmente una canzone si adatta così perfettamente alla storia di un atleta, a tal punto da sembrare scritta per lui: fidatevi, guardatene una e non ve ne pentirete. Goodbye, D-Rose, and thanks for everything.

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Alessandro Colepio

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