Whatsapp (@Shutterstock
Spiare le chat su WhatsApp non è solo una questione etica legata alla fiducia: per la cassazione costituisce un reato, quello di accesso abusivo a un sistema informatico.
A far parlare della questione è il caso di un uomo che aveva estratto dal cellulare della moglie alcune prove di tradimento per utilizzarle nella causa di separazione. Per la legge, soprattutto se il dispositivo e le conversazioni sono protette da password, WhatsApp costituisce un sistema informatico a tutti gli effetti. Pertanto è reato accedervi senza permesso.
L’uomo era già stato accusato di violenza privata: nel 2022 la moglie aveva denunciato atteggiamenti molesti e ossessivi, visto che il marito le controllava il cellulare. Qualche mese dopo l’aveva querelato con l’accusa di aver “estratto, da un telefono cellulare che utilizzava per lavoro e che non trovava più da tempo, diversi screenshot dal registro chiamate e dalla messaggistica, consegnandoli al suo legale, il quale li aveva prodotti in sede di giudizio civile, ai fini di addebito della separazione”. L’uomo ha quindi “arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie attraverso l’intrusione in un sistema applicativo”.
Si specifica che costituisce reato anche quando si aveva avuto il consenso a guardare delle chat, motivo per il quale il reo conosce la password, ma successivamente continua a utilizzarla senza permesso, violando la privacy.
Inoltre è considerato reato anche l’eventualità in cui, pur avendo il permesso del proprietario, il soggetto utilizza l’accesso per vedere anche informazioni per le quali non aveva il permesso.
Anche alla nota app di messaggistica si applica l’articolo 615 ter del codice penale, e questo reato è punibile persino con il carcere. Questa norma regola gli accessi abusivi a sistemi informatici o telematici: essendo essi protetti da una misura di sicurezza, come una password, è chiara la volontà di escludere altri.
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