Quello che prima era un segno indelebile di un passato terrificante, oggi è diventato grazie a molti giovani una eredità indelebile. Sono i tatuaggi con i numeri della deportazione nei campi di sterminio. Oggi 27 gennaio 1945, Giornata della Memoria, ricordiamo l’apertura dei cancelli di Auschwitz.
Per molti ebrei il tatuaggio è qualcosa di incompatibile, sia per la tradizione religiosa ebraica, sia perché richiama alla memoria l’Olocausto. Ora però è diventato una eredità indelebile. Infatti sta crescendo il numero di figli e nipoti che sceglie di ricopiare sul corpo il numero di serie, tatuato a forza dai nazisti nei campi di sterminio, ai propri avi. In questo modo cercano di definire la loro stessa identità e di evitare che si perda la memoria di quello che è successo, visto che ormai sono in vita sempre meno sopravvissuti.
Questo fenomeno è stato oggetto di studio anche di una sociologa Alice Bloch, che si è interrogata davanti alla potenza di questo gesto. L’impatto dell’Olocausto è stato devastante per le famiglie colpite, e per questo motivo molte di esse hanno tramandato questo dolore per generazioni, anche in modo non verbale. Infatti alcuni non ne parlano per anni altri invece sono testimoni fin da subito. Nella ricerca pubblicata su The Conversation, Alice Bloch, riporta alcune testimonianze di figli e nipoti dei sopravvissuti che raccontano perché hanno ricopiato il tatuaggio.
La sociologa in queste interviste ha dunque notato che non tutti lo facevano allo stesso modo. Infatti alcuni aspettavano la morte del genitore o del nonno, altri invece lo facevano senza chiedere il permesso ai parenti. Alcuni hanno replicato in tutto e per tutto il tatuaggio sia per la posizione sia per l’aspetto. Altri invece hanno scelto di decorare il numero e di posizionarlo in altre parti del corpo. Come spiega la sociologa: “Ogni decisione crea il significato del nuovo tatuaggio”.
Alice Bloch ha intervistato molte di queste persone. Una di queste è Rony Cohen, che percepiva nella nonna la presenza della tragedia anche se non ne parlava. Infatti a casa sua non c’era un rifiuto, la nonna finiva ogni briciola che aveva nel piatto suo e degli altri. Dunque Rony ha detto che:
“Il numero è mia nonna. È il mio passato, le mie radici, la mia storia. È quello che sono. Ogni volta che qualcuno vede il mio tatuaggio, sa che questo è Auschwitz. Voglio che sia notato e comprensibile. Nessuno dovrebbe dubitare di cosa si tratti”.
La sociologa ha parlato anche con un ragazzo di nome Yair Ron, che è cresciuto in un kibbutz fondato da sopravvissuti all’Olocausto.
“Era una comunità molto piccola di persone con la stessa idea di comunismo. Sono tutti sopravvissuti all’Olocausto, quindi hanno tutti un numero. Anche se era impossibile avere una conversazione sull’Olocausto con mio padre. Avevamo paura di chiedere e paura di sentire. Forse non volevamo sentire. E ci ha detto che non voleva dirlo, quindi non potevamo scambiarci alcuna informazione sull’Olocausto. Ci sembrava molto naturale che gli adulti avessero dei numeri quindi non prestavamo molta attenzione a questo. Non conoscevamo altri adulti o persone senza numero. Il kibbutz era lontano, sulla montagna, molto isolato”.
Una volta usciti dal kibbutz però ha notato che le altre persone non avevano un numero, e così gli è venuto in mente di tatuarsi il numero del padre, ma quest’ultimo era contrario. Per questo motivo ha potuto fare ciò solo alla sua morte. Questo gesto per Yair Ron è fondamentale per preservare la memoria e mantenerla sempre viva.
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