di Redazione Network NCI
Death Stranding non è un semplice videogioco: è un’esperienza emotiva, un viaggio silenzioso dentro le rovine dell’umanità. In un’America distrutta da un evento soprannaturale e inspiegabile, l’uomo ha perso il senso del contatto, la voglia di fidarsi, la capacità di camminare insieme. Death Stranding ci mette nei panni di Sam, ma in realtà ci mette davanti a noi stessi, alle nostre ferite, alle nostre solitudini. E ci chiede: cosa sei disposto a fare per riconnetterti?
Death Stranding e l’umanità dimenticata
Nel mondo di Death Stranding ogni cosa è spaccata: il paesaggio, i rapporti, la memoria. Le persone non si incontrano più, si chiudono in bunker tecnologici mentre il tempo scorre instabile. Nessuno si tocca, nessuno si guarda. La morte ha invaso la terra, e con essa è scomparsa la fiducia.
In questo scenario, camminare non è un gesto banale: è un atto di resistenza. Sam Porter Bridges non è un soldato, né un leader. È un corriere, un uomo qualunque, spezzato dalla vita, costretto a farsi carico del dolore degli altri. Ma proprio perché fragile, è l’unico che può salvare ciò che resta.
Camminando tra rovine e montagne, Sam costruisce ponti. Non solo strutture fisiche, ma legami umani. Ogni carico che trasporta è una promessa mantenuta, ogni consegna è un filo che riunisce ciò che sembrava perso per sempre. La sua fatica è la nostra.
Death Stranding parla a chi ha conosciuto la perdita, a chi ha vissuto nell’isolamento, a chi ha avuto paura del contatto. Ma non si limita a raccontare il dolore: ci mostra la bellezza di ricominciare. Anche quando le mani tremano, anche quando si è soli.
La meccanica asincrona del gioco (che permette ai giocatori di aiutarsi a vicenda senza mai incontrarsi) è un colpo di genio. Ci si sente parte di qualcosa, anche senza sapere chi ci ha lasciato una scala o costruito un rifugio. In un mondo che sembra gridare “si salvi chi può”, Death Stranding sussurra che aiutare gli altri è ancora possibile e necessario.
Death Stranding è una carezza in mezzo al buio
Ogni personaggio di Death Stranding porta con sé un trauma, una colpa, una ferita da ricucire. C’è chi ha perso un figlio, chi ha smesso di parlare, chi si è arreso. Ma il cammino di Sam incrocia queste vite e le riaccende, poco a poco. Come quando si riaccende un fuoco nella notte. La narrazione ci accompagna senza fretta, lasciandoci il tempo di respirare, di pensare e di sentire.
Il gioco ci chiede di rallentare. Non si corre, si avanza con fatica. Si cade, ci si rialza, si sceglie ogni passo. È quasi una meditazione, una sorta di pellegrinaggio silenzioso. Ogni suono (dal vento alle lacrime di BB) sembra reale. E ogni passo è un messaggio: “non sei solo“.
Dopo anni in cui il mondo reale ha conosciuto la distanza, la paura del contatto, il bisogno dell’isolamento, Death Stranding diventa incredibilmente attuale. Ci parla del valore della connessione: non digitale, ma umana. E ci ricorda che, anche nei momenti più bui, possiamo ancora costruire qualcosa. Anche se non riceveremo nulla in cambio.
Death Stranding è un’opera che consola, che ferisce e che abbraccia. È un gioco che si ricorda. Perché dentro il suo mondo spettrale c’è una verità che riguarda tutti noi: i legami, per quanto invisibili, sono ciò che ci rende vivi.
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Articolo di Pieralessandro Stagni
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