Cinema & Serie TV

“Avatar – The Way of Water”: la recensione del kolossal di James Cameron

A tredici anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio, James Cameron torna in sala con “Avatar – The Way of Water”, sequel diretto di quel primo capitolo che rivoluzionò il cinema d’intrattenimento. Il regista canadese sarà riuscito a bissare l’impresa? Scopritelo con noi all’interno della recensione!

Trama

La guerra tra “gli uomini del cielo” e gli Omaticaya è ormai un lontano ricordo. Jake Sully (Sam Worthington) e Neytiri (Zoe Saldana) vivono in pace assieme ai figli Neteyam, Lo’ak e Tukai quali si sommano gli adottivi Kiri e l’umano Spider. Tuttavia, dalla Terra sembra giungere una minaccia ancor più letale rispetto alla precedente, tanto da costringere i protagonisti a migrare verso lidi sconosciuti, in cerca di accoglienza…

Un racconto corale

Il cuore pulsante di “Avatar – The Way of Water” è rappresentato dalla famiglia Sully. Da un lato, ci si concentra sulla genitorialità, intesa come assunzione di ruoli attraverso cui vengono diramati educazione, disciplina, affetto e protezione (speculari in tal senso le figure dell’antagonista e di “Toruk Makto”), dall’altro è il conflitto generazionale a trovare spazio fra le righe di un copione semplice, ma non per questo privo di complessità. L’esteso minutaggio, inoltre, permette al film di sviluppare l’arco adolescenziale dei giovani Na’vi. Attratta da tutto ciò che di nuovo le si palesa difronte, la progenie di Jake e Neytiri verrà presto chiamata ad assorbire i precetti di una cultura “altra”, distante dalla propria; ed è inevitabile che in un contesto così stimolante sboccino sia le rivalità che i primi amori, quest’ultimi accesi da un erotismo che il cineasta esplicita con classe.

L’impressione è che le storyline di Lo’ak, Kiri e Tuk, possano trovare terreno fertile nei successivi capitoli del franchise. Attenzione però, già qui il terzetto è posto al centro della narrazione, così come il primogenito Neteyam. Ancor più interessante il dramma di Spider, personaggio costretto a un simbolico “fuoco incrociato”. In lui risiede tanto la volontà di aggrapparsi a un punto di riferimento biologico, quanto la consapevolezza di non poter rinnegare gli affetti coi quali è cresciuto. Un “ibrido” dalle fattezze umane, ma dal retaggio tipicamente indigeno. È il ragazzo, in particolare, a incarnare l’attualità di certi argomenti: dall’adozione al disconoscimento (seppur parziale) del padre, per poi vertere sulla totale inclusività.

 

Avatar – The Way of Water, via YouTube @20thCenturyStudiosPhilippines

 

Lo spettacolo di “Avatar – The Way of Water”!

Alle delicate disamine precedentemente riportate, corrisponde il poderoso comparto audiovisivo del progetto. Le imponenti scenografie incontrano i colori suadenti dell’ineccepibile fotografia di Russell Carpenter, il quale imprime sulle immagini effetti chiaroscurali di incondizionato pregio. Il valore della mastodontica produzione è riscontrabile altresì nei dettagli: che siano i peli sul ventre di un comprimario coccolato dai bagliori del tramonto, o le infinitesimali espressioni dei volti, figlie di una modellazione in CGI da consegnare ai posteri. Sebbene la luce rifletta realisticamente sulle superfici digitali e ponga al contempo l’accento sulle tinte di ciascuna creatura, è negli abissi che i riverberi assumono tutt’altro significato.

I fondali rivoluzionari di “Avatar – The Way of Water” fanno gridare al miracolo, complice l’inequivocabile impatto scenico di fauna e flora. In un primo momento, la seconda ricalca le caratteristiche delle comuni barriere coralline, salvo poi ampliarne la portata e sfoggiare una quantità di fanerogame tale, da poter essere accostata al documentario. Di pari passo, colpisce la straordinaria capacità di Cameron nel riproporre gli organismi subacquei sotto nuove spoglie. A tal proposito, l’autore si affida tanto alla biologia marina quanto all’encomiabile direzione artistica del kolossal, affinché venga proposto un risultato che conservi sia le peculiarità delle consuete specie acquatiche, sia connotati di assoluta fantasia.

Al contempo, l’opera gode di uno straordinario world-building. La società dei Metkayina, popolo dalla spiccata indole spirituale, è illustrata con dovizia di particolari: la stretta connessione che intercorre fra i suddetti e l’oceano, intercetta sin da subito quelle tematiche tanto care al creativo (il sottotesto ecologista è ribadito con ancor più forza rispetto al capostipite). Altrettanto meticoloso è il lavoro svolto sul linguaggio e, in generale, sulla comunicazione. Ricco di suoni gutturali, versi e terminologie sconosciute agli Omaticaya, il gergo delle isole favorisce un’inconsueta trasmissione di informazioni fra le tribù costiere e gli esseri che affollano le profondità del mare. Quello che si stabilisce in acqua è un legame indissolubile, sorretto dall’imperituro ciclo di morte-rinascita.

 

Fra innovazione e piccoli inciampi

È sorprendente come, a quasi 70 anni, Cameron riesca a tenere le redini di un impianto così ingombrante. In “soccorso” alle sequenze action sopraggiungono movimenti di macchina repentini, eppure ugualmente fluidi (l’HFR accentua il “realismo” del quadro e agevola la scorrevolezza degli istanti più concitati). Ciononostante, la regia si dimostra abile nel “commentare” anche gli attimi dal piglio emotivo. Che dire poi delle panoramiche e dei magniloquenti campi lunghi, veri e propri guizzi volti a catturare l’immensità di un mondo affascinante ed estremamente vivo. Il 3D rappresenta la ciliegina su una torta già di per se deliziosa… ma quando alla tridimensionalità si accostano i 48 fps, qualsiasi altro termine di paragone scompare. Nulla di simile ha mai interessato il grande schermo dal punto di vista tecnologico.

Sebbene tutto ciò rischi di “ammaliare” il pubblico, è indubbio che l’opera conservi al suo interno dei limiti piuttosto evidenti. Nello specifico, alcuni stacchi di montaggio soffrono di una discreta approssimazione, come se, in più di un’occasione, l’obiettivo fosse quello di allontanarsi da una sequenza per passare nel minor tempo possibile all’altra. Certo, qualche raccordo in più avrebbe esteso ulteriormente la durata del lungometraggio, ma il medesimo ne avrebbe giovato in termini di organicità. Il terzo atto poi, presta il fianco a una gestione non proprio esemplare dei Metkayina. Alcuni di questi, purtroppo, sembrano sparire proprio sul più bello, laddove la narrazione li avrebbe voluti a fianco dei protagonisti.

 

Avatar – The Way of Water, via YouTube @20thCenturyStudiosIE

“Avatar – The Way of Water” reclama la sala

In un periodo storico contrassegnato dalla crisi della settima arte (e non solo), l’autore rilancia, puntando tutto sulla creatura che, in quel lontano 2009, sbancò i botteghini. In netta controtendenza rispetto a un’industria impegnata nell’estenuante mercificazione di mascotte in calzamaglia, l’epopea fantascientifica ambientata a Pandora ridefinisce gli standard qualitativi del cinema di largo consumo.

Impossibile negarlo. Lo si evince dalla stratificazione del racconto, dalla netta evoluzione sul versante estetico, dal colossale world-building, dalla toccante colonna sonora di Simon Franglen e dall’ispessimento psicologico dei personaggi. In egual misura, Cameron ripesca dal passato: lampanti le influenze di “The Abyss”, così come i rimandi a Ellen Ripley per lo sviluppo di Neytiri (tridimensionale come pochi altri). Per non parlare di quanto Quaritch risulti più sfaccettato, seppur imbrigliato nello stereotipo dell’eccentrico fanatico. Nondimeno, è possibile che il percorso del generale possa sorprendere qualcuno in sala. Inutile soffermarsi sui riferimenti a “Titanic”, quest’ultimi si sprecano tanto nei legami affettivi, quanto nella messinscena dell’ultima mezz’ora.

In conclusione, il successore di “Avatar” scommette ancora una volta sulla capacità immaginifica della più importante forma d’arte – e di spettacolo – del 900’. Toccherà al pubblico decretarne o meno il successo commerciale. Quel che è certo, è che il re dei sequel” riesce nuovamente laddove in molti falliscono, ovvero a superarsi.

Pro

  • L’inestimabile impianto audiovisivo;
  • La profondità del 3D;
  • La fluidità apportata dall’HFR;
  • Il valore di una direzione artistica encomiabile;
  • L’irrobustimento dei personaggi;
  • I fondali di Pandora;
  • La naturale integrazione dei sottotesti ambientalisti.

Contro

  • Qualche stacco di montaggio azzardato;
  • La dubbia gestione di alcuni comprimari.

E voi che ne pensate di “Avatar – The Way of Water”? Cosa vi ha convinto della pellicola e quali perplessità avete riscontrato? Fatecelo sapere sui nostri canali social. Intanto v’invitiamo a rimanere sulle pagine di Nasce, Cresce, Streamma per ulteriori recensioni provenienti dal mondo del cinema e delle serie TV.

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Gianluca Panarelli

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