A sette anni di distanza da “Joy”, David O. Russell torna al cinema con “Amsterdam”, lungometraggio distribuito da The Walt Disney Company. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il film debutterà nelle sale il 27 ottobre.
New York, 1933. Reduci dalla Grande Guerra, il dottor Burt Berendsen (Christian Bale) e l’avvocato Harold Woodman (John David Washington) si ritrovano al cospetto del cadavere del generale Meekins (Ed Begley Jr.). Ipotizzando un possibile avvelenamento, Liz (Taylor Swift), figlia del defunto, chiede a entrambi di eseguire un’autopsia. Nel tentativo di scoprire chi o cosa abbia causato la morte del generale, i due verranno ben presto coinvolti in un complotto di portata nazionale.
Il regista di “The Fighter” e “Silver Linings Playbook” propone la parziale rilettura del “Business Plot”, ovvero il tentato colpo di Stato volto al rovesciamento della presidenza Roosevelt. Alle fondamenta storiche corrispondono un cast da capogiro (oltre ai già citati spiccano Margot Robbie, Robert De Niro, Anya Taylor-Joy, Rami Malek, Michael Shannon e Zoe Saldaña) e dei collaboratori di prim’ordine: il DoP Lubezki, il montatore Jay Cassidy e il costume designer Albert Wolsky. Con una produzione del genere alle spalle, verrebbe quasi da scommettere sul risultato. Eppure…
L’impianto della pellicola ammicca al giallo, alla commedia e allo spionistico, per poi rivolgersi al romanticismo di una storia interrazziale, all’attualità e al commovente idillio di un triangolo bizzarro. Troppa carne al fuoco per una sceneggiatura che, nell’arco di 134 minuti, dovrebbe altresì prestare attenzione ai personaggi e al soggetto. Purtroppo, quel che ne segue è un ibrido claudicante, privo di guizzi e carente sul piano contenutistico. Vincolato a un ritmo pachidermico, l’atto d’intermezzo aggroviglia ulteriormente i fili di una matassa già intricata, disorientando lo spettatore a più riprese. Tutto fuorché accattivante, l’intreccio si lancia in linee di dialogo ammorbanti e in prolissità maldestramente sorrette da un comparto narrativo spento. È la trama a perdere di vista l’obiettivo.
Sprovvisti di background, i comprimari frequentano in parte l’opera. La colpa di O. Russell è quella di ridurre a semplici “cartoline” le figure di contorno, imbrigliando le caratterizzazioni in sequenze sconnesse, dal potenziale appena accennato. Piuttosto che a interpretazioni degne di nota, l’ingombrante cast punta a colmare dei vuoti strutturali, nonché fastidiosi sintomi di una scrittura malconcia. Le uniche eccezioni risiedono sia in Christian Bale (qui nella doppia veste di attore e produttore) che in Margot Robbie.
Difatti, spetta a Burt Berendsen e a Valerie Voze risollevare le sorti di “Amsterdam”. Come di consueto, il primo si focalizza sull’aspetto estetico del proprio alter ego. Nonostante il busto ammaccato riporti in auge gli orrori del conflitto, l’improbabile dottore riesce comunque a distaccarsene, sperimentando su se stesso e sui pazienti una tecnica vicina al kintsugi. Per il personaggio, lo scopo è quello di rimediare ai malanni della guerra attraverso il “restauro” del corpo. Valerie segue lo stesso principio. In concomitanza con le giovani avanguardie, l’infermiera reperisce tutto ciò che lo scontro armato “rigurgita”, al fine di nobilitare opere di stampo surrealista. Assieme al fiacco John David Washington, i due compongono un terzetto di sognatori, il cui unico conforto risiede nella capitale dei Paesi Bassi.
Le fragilità intestine del film compromettono parte dell’esperienza cinematografica; tuttavia, è fuor di dubbio che il colpo d’occhio sortisca un certo fascino. In termini fotografici, Lubezki opera sull’illuminazione dei volti, accentuando le caratteristiche di ciascun soggetto. Valorizzati dalla palette cromatica, i contrasti chiaroscurali si cimentano nell’alterazione dei connotati e nell’ispessimento dei pastelli. A dominare la scena è una patina vintage intrisa di marroni, ottoni e gialli. Di tutta risposta, i sontuosi costumi di Albert Wolsky e J.R. Hawbaker, così come le scenografie di Patricia Cuccia, provvedono a una ricostruzione storica puntuale, ricercata ed elegantemente sottolineata dal genio messicano. L’accademica regia dell’autore statunitense tallona le sue star, optando di tanto in tanto per il dettaglio. L’interesse nei confronti dei primi piani rasenta il feticismo, al punto che lo sguardo dei coinvolti è spesso indirizzato alla macchina da presa (automatica la rottura della quarta parete). È Burt a sfruttare l’espediente e rendere lo spettatore un confidente.
Inutile negarlo, il progetto di David O. Russell manca il bersaglio. Sprovvista di un’identità propria, la pellicola cerca di aggrapparsi a una miscela di generi tutt’altro che esplosiva. Ne segue un cocktail sbilanciato, diluito, assoggettato al volere di un finale retorico. A nulla serve la parata di grandi nomi, se non per rendere più appetibile il prodotto a un pubblico di facile richiamo. Casomai all’appello fossero mancati gli apporti di Lubezki e Wolsky, così come le solide performance di Bale e Robbie, staremmo sicuramente parlando di una catastrofe. Fortunatamente, così non è… ma non ce ne siamo discostati più di tanto.
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