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Alzheimer: uno studio suggerisce che possa essere “contagioso”?

di Lorenzo Peratoner

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Il morbo di Alzheimer può essere contagioso? Uno studio pubblicato su “Nature Medicine” il 29 gennaio andrebbe in parte a suffragare questa tesi, tuttavia non c’è nessun motivo per preoccuparsi; non si tratta, infatti, di un virus o di un batterio, e i casi studio della ricerca coinvolgono delle persone che hanno subìto dei trattamenti medici non più accettati dagli anni ’80. Se la possibilità di “contagiarsi” è quindi potenzialmente nulla, i risultati dello studio sono comunque degni di nota, in quanto potrebbero contenere degli indizi sulla diffusione di questo morbo.

 

Alzheimer: la possibile modalità di contagio

Un team dell'”UCL Institute of Prion Diseases” di Londra ha condotto lo studio in questione, il quale, come riportato da Focus, risulta essere il terzo di due ricerche analoghe, pubblicate nel 2015 e nel 2018.

Il punto di partenza di questi studi è il focus su alcune decine di pazienti che, in tutto il mondo, avrebbero contratto il morbo di Creutzfeldt-Jacob (variante molto rara della “mucca pazza”); la causa di questa malattia si troverebbe nel trattamento medico che hanno ricevuto da bambini, che consiste nell’iniezione dell’ormone della crescita prelevato dall’ipofisi (una ghiandola endocrina alla base del cervello) di alcuni cadaveri. Il problema, tuttavia, è che i cosiddetti prioni, delle cellule proteiche infettive, avrebbero contaminato alcuni lotti di ormoni; per questo motivo il mondo medico-scientifico ha bandito l’estrazione da ipofisi umane negli anni ’80.

Il team di ricerca aveva individuato nel cervello di alcuni di questi pazienti, deceduti in età giovanile a causa del morbo di Creutzfeldt-Jacob, la presenza di depositi di proteina beta-amiloide, una delle principali cause dell’Alzheimer. L’ipotesi, pertanto, era che queste proteine mutate fossero frutto delle terapie ormonali infantili o adolescenziali, andando a suffragare l’ipotesi di “contagiosità” del morbo.

Nel 2018, infatti, i ricercatori hanno provato che la beta-amiloide di alcuni lotti di ormoni (prelevati direttamente dalle fiale utilizzate 30-40 anni fa sui bambini) si diffonderebbe nel cervello di alcuni topi geneticamente modificati, fornendo pertanto ulteriori indizi circa l’idea del contagio. È in questo stato della ricerca che si inserisce pertanto l’ultimissimo studio, ad opera dello stesso team.

Alzheimer (@Shutterstock)

I risultati del nuovo studio

Un totale di otto persone, che hanno subìto i trattamenti ormonali infantili ma senza aver maturato il morbo di Creutzfeldt-Jacob, avrebbero dato segni di Alzheimer. Cinque di questi, in particolare, avevano già sviluppato sintomi di Alzheimer precoce (tra i 38 e i 55 anni), mentre due avevano segni evidenti di problemi cognitivi; solamente uno di loro non presentava sintomi. È opportuno sottolineare, tuttavia, che i pazienti in questione soffrivano già di condizioni di salute pregresse; ciò nonostante è piuttosto improbabile che si possa trattare di una mera coincidenza.

L’interpretazione adottata dai ricercatori sostiene pertanto che vi sia stata “un’esposizione condivisa” a causa dei trattamenti subiti nell’infanzia. Ci sono, tuttavia, dei margini di incertezza; questi pazienti, avendo subìto dei trattamenti fin da piccoli, presentavano già delle situazioni di salute precarie, inoltre la beta-amiloide non è probabilmente l’unica responsabile dell’emersione del morbo di Alzheimer.

Ribadiamo tuttavia che non c’è nessun pericolo di contagiosità del morbo, come ha affermato il neurologo John Collinge, uno degli autori dello studio:

“Non stiamo suggerendo nemmeno per un momento che sia possibile contrarre il morbo di Alzheimer. Questo non è trasmissibile nel senso di un’infezione virale o batterica.” 

A fargli eco il neurobiologo Carlo Condello dell’Università della California, non coinvolto nello studio:

“Non crediamo assolutamente che la malattia di Alzheimer sporadica sia una malattia trasmissibile. Solo in presenza di pratiche mediche incredibilmente artificiose e ormai superate si sta manifestando. Non è più un problema”. 

Fonti: Focus, Science News, Nature Medicine

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