di Lorenzo Peratoner
Un paper scientifico condotto dalla Columbia University e pubblicato sulla rivista “Acta Neuropathologica” suggerisce che delle varianti genetiche, presenti all’interno di alcuni individui geneticamente predisposti a contrarre il morbo di Alzheimer, possano fungere da strumento per produrre delle nuove terapie farmacologiche per contrastare una malattia che al giorno d’oggi risulta essere incurabile.
Alzheimer: il ruolo della variante APOEε4
L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che, solitamente, si manifesta dopo un lungo periodo pre-sintomatico, ed è caratterizzata dall’accumulo di proteina beta-amiloide, sotto forma di placche, sul telencefalo, e da depositi proteici di Tau.
Le ragioni che determinano l’insorgenza di questo morbo non sono ancora del tutto note; tuttavia ci sono delle predisposizioni genetiche evidenti. Il gene APOE, che sintetizza la proteina APO-E (che interviene nel metabolismo e trasporto dei lipidi), può presentarsi in alcuni individui sotto forma di una variante, detta ε4, la quale è dimostrato che aumenta i fattori di rischio di Alzheimer, sebbene possano variare in base alla propria etnia.
Un elemento che ha catturato la curiosità dei ricercatori, tuttavia, concerne la presenza, all’interno della popolazione portatrice dell’allele APOEε4, di individui che, nonostante l’età superiore ai 70 anni, non hanno dato segni di sintomi del morbo.
È evidente che dinanzi a casi di questo genere le motivazioni che soggiacciono a questa particolare resilienza possono rivelarsi molteplici, a partire dalle condizioni di salute generali, in primis quella vascolare e del metabolismo; tuttavia, l’ipotesi alla base della ricerca è che ci siano dei meccanismi genetici protettivi tali da contrastare o comunque mitigare gli effetti negativi di APOEε4. Badri N. Vardarajan, co-leader dello studio, ha infatti affermato:
“Queste persone resilienti possono dirci molto sulla malattia e su quali fattori genetici e non genetici potrebbero fornire protezione. Abbiamo ipotizzato che queste persone resilienti possano avere varianti genetiche che le proteggono dall’APOEe4”.
Il sequenziamento dei genomi e il ruolo della variante genetica
Il team ha pertanto sequenziato il genoma di diversi centinaia di portatori con età maggiore di 70 anni, sia coloro che erano affetti da Alzheimer sia le persone sane. I ricercatori hanno pubblicato i propri risultati in una prestampa consultabile anche da altre realtà accademiche, ottenendo la replica dello studio anche dalle università di Stanford e Washington, combinando così i dati di circa 11mila partecipanti.
Il team della Columbia University avrebbe pertanto individuato nel gene “FN1” una variante “protettiva” che diminuirebbe la possibilità di contrarre l’Alzheimer, fungendo da contraltare all’azione di APOEε4. Il gene in questione sintetizza la fibronectina, un componente fondamentale della barriera emato-encefalica, una struttura protettiva presente intorno ai vasi sanguigni del cervello e volta a evitare la contaminazione del sistema nervoso centrale da eventuali sostanze tossiche presenti all’interno del sangue.
Nei pazienti affetti dal morbo, la fibronectina verrebbe sintetizzata in quantità eccessive, determinando, secondo l’ipotesi degli studiosi, una impossibilità nel ripulire il cervello dall’accumulo di amiloide, e con la conseguente esacerbazione della malattia. La variante genetica individuata dal team di ricerca, tuttavia, eviterebbe l’accumulo di questa proteina, scongiurando così i suoi effetti nocivi e permettendo all’amiloide di essere espulsa.
Questa ipotesi, infatti, è stata confermata da degli esperimenti condotti su un modello di Alzheimer presente nei pesce zebra, e un’indagine analoga sta venendo condotta sui topi. Richard Mayeux, co-leader dello studio, ha sostenuto:
“Questi risultati ci hanno dato l’idea che una terapia mirata alla fibronectina e che imita la variante protettiva potrebbe fornire una forte difesa contro la malattia nelle persone”.
Alzheimer: si apre la strada verso nuove terapie farmacologiche?
Se questa pista di ricerca dovesse effettivamente rivelarsi valida ed efficace, con il supporto di ulteriori studi, si potrebbe potenzialmente aprire una nuova strada farmacologica che permetterebbe di eliminare l’amiloide con molto anticipo rispetto alle cure attuali; le terapie più recenti, infatti, contribuirebbero con una certa efficacia nel colpire l’amiloide, attraverso il sistema immunitario, tuttavia i danni compiuti dal morbo non si potrebbero riparare, tantomeno la sintomatologia. Agire, invece, direttamente dal sistema circolatorio potrebbe rivelarsi uno strumento più efficace e preventivo:
“Potremmo dover iniziare a eliminare l’amiloide molto prima e riteniamo che ciò possa essere fatto attraverso il flusso sanguigno. Ecco perché siamo entusiasti della scoperta di questa variante della fibronectina, che potrebbe essere un buon obiettivo per lo sviluppo di farmaci”.
Fonti: Columbia University Irving Medical Center; Acta Neuropathologica
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